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Immagine del redattoreAButtus

Tu chiamali se vuoi, spalla.

Aggiornamento: 23 set 2020

Facce assonnate non se ne videro quella mattina. Sui nostri volti c'era qualcosa di più dei segni impietosi di una sveglia partita troppo presto. Erano dipinti di emozioni e aspettative, puntellati di eccitazione e fermento, carichi come molle pronte a scattare, solari e caldi, felici.

Una sigaretta prima di salire sul pullman, un pacchetto di Ringo che passava di mano in mano e da cui ognuno di noi attingeva, zainetti stracciati sulle spalle che se avessero parlato loro, ne avrebbero svelate alcune che meglio tener sepolte. Ci scambiavamo sguardi accesi e sorrisi nevrotici, e non riuscivamo a star fermi, agitati com'eravamo, improvvisati atleti in fermento per lo sport del giorno.

Si andava all'Open Air dell'anno. Risparmi da studentelli pronti a venir meno.

Musica rock, per racchiudere tanto e non escludere nessuno. Perché rock, ormai, è diventato un vocabolo strano. Un po' come quelle parole che si dicono per dare un indizio, per incarnare un concetto base, ma che per chi ci sguazza è molto più di una categoria. Come dire cibo senza specificare la pietanza, gli ingredienti, gli aromi.

Quando il pullman si mise in moto mi accorsi che chi l'aveva organizzato non aveva esagerato. Non c'era un solo posto libero, una sessantesima parte a testa per prendere parte al viaggio di una giornata, che per me valeva quando un mese intero.

Eravamo un gruppo eterogeneo di coetanei variopinti e diversificati. Non ci conoscevamo tutti personalmente, ma di vista sì perché gli ambienti che frequentavamo erano gli stessi, i pub, le piazze, le scalinate, le feste. Anche senza conoscerli uno per uno però, non mi fu affatto difficile catalogarli. Fu sufficiente osservarli qualche istante per capire esattamente per quale motivo si trovassero sul mio stesso mezzo di trasporto e del perché avessero preso la mia stessa strada. E non soltanto riferito all'Open Air in sé, ma più in particolare riuscii a leggere tra i segnali del loro assortimento, quale artista stessero agognando maggiormente, quale tra i tanti in programma erano quelli che gli solleticavano il palato. Una spilla sulla tracolla della borsa, un berretto indossato in un modo, dei pantaloni dal taglio largo, un polsino con un simbolo sulla spugna, una t-shirt rivelatrice.

E io non facevo differenza...

Eravamo un insieme di finti alternativi in un mondo psichedelico, topini disordinati all'inseguimento di un pifferaio col microfono alla bocca.

Ci spargemmo appena sbarcati, mescolandoci a migliaia di ragazzi che come noi si stavano recando ai cancelli. Lungo il percorso passammo in rassegna le numerose bancarelle di cibo di strada che si sfidavano tra sfrigolii di cipolla e segnali di fumo scritti nel cielo dalla carne sulla griglia. Quelli che di noi resistevano al richiamo del cibo, venivano raggiunti dagli spacciatori, che si avvicinavano mimetizzandosi tra la gente, paradossalmente invisibili, inudibili, ombre sotto al sole di mezzogiorno. Offrivano qualche tiro di canna con l'occhio sempre vigile, invitavano a testare il prodotto che si sarebbe potuto comprare, torturandoci quasi fosse inaudito starne senza.

I bagarini agitavano in aria mazzette di biglietti, tanti quanti una mano di ramino e li vendevano ai ritardatari. Non soddisfatti spingevano per comprarne ancora da chi faceva la fila, come se dopo tanta strada per arrivare fin lì si fosse stati tanto sciocchi da star fuori e tornarsene a casa con la coda tra le gambe. Osservammo il merchandising tarocco fintanto che i buttafuori ci facevano aprire gli zaini, ci perquisivano le tasche e ci toglievano le cinture borchiate, e gli anelli contundenti, e gli zippo di metallo.


Appena entrati marcammo il territorio. Le ragazze si sedettero in cerchio come una tribù indiana attorno al totem, incrociando le gambe e accendendosi una sigaretta. Alcune di loro ballarono al ritmo del sottofondo che si diffondeva dagli altoparlanti, mentre il palco veniva allestito, civettuole, provocanti con l'intento di provocare. Un paio di loro si tolsero la maglietta restando col pezzo sopra del costume. Gli occhi chiusi come a dirci che non si curavano di nessuno di noi, i corpi oscillanti, ipnotici, affamati di sguardi.

Prendemmo da bere. Birra calda in bicchieri di plastica. Da ogni lato mi girassi sentivo odore di marijuana e cioccolato, udivo il tamtam incessante dei bongos, vedevo coppie roventi che si baciavano, visi sorridenti, sguardi fieri di chi come me sapeva fin da subito che sarebbe stato maestoso.

Quando la prima band fece capolino sul palco non furono tanti quelli che si accalcarono fino alle transenne. Accorrere al primo riff di chitarra dell'artista meno blasonato in scaletta equivaleva a marchiarsi quali sfigati. Scegliemmo di stare da parte, rilassati nel nostro fazzoletto di prato, bicchiere sempre in mano, sigaretta tra le dita e le orecchie distratte.

Cambiammo opinione in breve tempo, quello sufficiente a farci capire che quei tre ragazzi, che si dimenavano sul palco come fossero posseduti, che saltavano come grilli e che riversavano anima e corpo nella loro mezz'ora a disposizione, non erano lì per caso. A dispetto dei volumi mal assortiti, del sole alto nel cielo, del caldo, della massa che ancora si apprestava a raggiungere l'open air, furono in grado di ritagliarsi un rispettoso seguito. Tanti di noi si avvicinarono incuriositi, alcuni riconobbero un brano sentito in radio e intonarono il ritornello, altri ancora vuotarono i bicchieri in gola e si fecero largo per il primo pogo di giornata. Il semicerchio dei pochi si alimentò di corpi, i tre lo percepirono aizzando le dita fameliche sulle corde degli strumenti, i capelli bagnati e i corpi madidi di sudore, i volti concentrati che annuivano a ritmo della musica, gli occhi carichi sulla folla, come mirini di fucili puntati sugli obiettivi.

Quando la mezz'ora cessò il cantante continuò la sua discesa negli inferi, produsse assoli graffianti e riff assordanti, piroettando sul palco in preda all'estasi. Sfilò la chitarra dalla spalla e cominciò a colpire gli amplificatori finché non la disintegrò. Quindi uscì di scena lasciando gli adolescenti del pubblico, me compreso, con la solleticante sensazione che se l'inizio era di tale entità, chissà cosa ci avrebbero riservato gli headliner.

Noi pubblico, rinfrescato da un idrante che fece piovere acqua rigeneratrice sul selciato polveroso, mentre gli addetti rassettavano il palco ci scambiammo sorrisi stupiti e stucchevoli.

Ah, non l'ho detto, ma fu uno dei primi concerti dei Muse in Italia, se non addirittura il primo.

Magari un giorno scriverò di chi li seguì su quel palco, ma non oggi... ho le orecchie che prudono e mi chiedono di correre a riesumare un vecchio CD in garage.





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