L'autista girò la chiave nella ghiera di accensione. Il pullman si mise in moto dopo un borbottio interminabile, colpi di tosse di un animale malato e risvegliato dal letargo. Alle nostre spalle il gas di scarico disegnò nuvole nere come fossero segnali di fumo a informare della nostra partenza.
Il mio vicino, che si era appoggiato al finestrino con il cappello da baseball ben calato sugli occhi per sonnecchiare qualche minuto, venne sballottato dalle vibrazioni del mezzo. Io risi nel notare il suo cappello segnato di unto a causa dello sporco sui vetri e l'espressione infastidita che gli spuntò sul viso.
Noi quattro bolzanini eravamo i soli turisti a bordo di quel pullman gremito. Risaltavamo come chiazze di urina nella neve, con le nostre t-shirt stampate e le sneakers ai piedi. Provammo a parlare tra di noi, ma il rumore assordante del motore combinato a quello delle ruote sulla strada dissestata che ci allontanava da Ouarzazate, rese la conversazione impraticabile. Procedemmo silenziosi, azzittiti così come gli altri passeggeri che occupavano i sedili attorno a noi.
Per ingannare il tempo tenni lo sguardo puntato fuori dal finestrino, passandolo di arbusto in arbusto, di roccia in roccia, seguendo il contorno frastagliato dei colli dell'Atlante marocchino.
Nel mutismo nel quale eravamo costretti riavvolsi il nastro del nostro viaggio fino a quel momento, avevamo visitato Casablanca e la sua Kasbah, ossia il mercato cintato di mura, avevamo sfiorato Rabat salutandola con la mano a bordo di un treno senza porte, calcato le città imperiali di Fez e Meknès e dormito in tuguri che sembravano galere dismesse. Realizzai quindi, proprio in quel preciso istante, che il più grave errore cui si incorre organizzando una vacanza, è proprio il programmarne le tempistiche e gli itinerari per filo e per segno.
Per quanto mi riguarda, che sono preciso e ordinato, che adoro sapere in ogni momento quale sarà la mia destinazione e quando la raggiungerò, fu una vera rivelazione. Capii che un cuore aperto e un animo ricettivo, capaci di lasciarsi sorprendere da quel che veniva, ne avrebbero giovato.
Iniziai a guardami attorno con più attenzione perché con ogni probabilità quella particolare porzione di mondo l'avrai veduta solo quella volta in vita e non volevo perdermene un solo istante. Battei le palpebre come fossero l'obiettivo di una macchina fotografica, rubai fotogrammi mnemonici da relegare tra i miei ricordi, in quel personalissimo album mentale da custodire per sempre.
Gli alberi d'Argan che crescevano a bordo strada pullulavano di vita. Sotto di essi stazionavano delle piccole caprette e alcune di esse si arrampicavano sui rami per raggiungere le foglie nuove. Sembravano buffe decorazioni per un albero di Natale fuori programma, fuori luogo e fuori stagione. Attraversando i minuscoli villaggi che incontravamo, i miei occhi si perdevano tra i colori accesi dei mercatini all'aperto, il turchese e il porpora dei tessuti, l’ocra dei vasi di terracotta, il bianco dei sorrisi accesi dei bimbi che ci rincorrevano ilari.
Appena il buio prese il sopravvento l’autista mise la freccia e fermò il pullman in uno spiazzo incredibilmente carico di vegetazione e di umidità, grazie a un lento torrentello che scorreva a lato della carreggiata. C’erano una pompa di gasolio e un paio di edifici in tutto. Uno di questi era illuminato e ne uscirono un paio di ometti che ci accolsero sorridenti. Ci invitarono a utilizzare i servizi qualora ne avessimo avuto bisogno e a entrare per riposare e acquistare qualcosa. Noi quattro, titubanti e stanchi, scendemmo e ci accendemmo una sigaretta, ma ci rendemmo conto che tra tutti i passeggeri del pullman eravamo proprio noi le star.
Uno dei due ometti si avvicino e ci scroccò da fumare, quindi iniziò a parlare mescolando idiomi casuali con l’obiettivo di farsi capire. Gettati i mozziconi ci spintonò amichevolmente verso l’edificio. Ci indicò un tavolo di legno consunto al centro del salone. In fondo c’era il focolare, sopra al quale cucinava un’ampia pentola per il Tajine e che diffondeva un gradevole profumo speziato. Le pareti della stanza, cariche di mensole, mettevano in mostra suppellettili di ogni tipo, dalle stoviglie ai soprammobili, dalle miniature ai quadretti in mosaico, dal vasellame ai tessuti.
Ordinammo delle lattina di cola e ci sparpagliammo per osservare la mercanzia. Io venni rapito da una minuta scacchiera di legno laccato, con le pedine intagliate a mano e due piccoli cassetti per stivarle. Mi si avvicinò il più piccolo dei due uomini, che mi arrivava a mala pena all’altezza dello sterno, e mi fissò in febbricitante attesa. Si massaggiò il mento con una mano mentre con l’altra si grattava la tempia.
Improvvisamente mi disse qualcosa, ma io non fui in grado di capire. Allora disegnò nell’aria con l’indice.
«500»
Il prezzo della scacchiera in Dirham equivaleva a poco meno di 50 Euro. Scossi la testa con sdegno, questo anche perché sapevo ormai che in Marocco, così come in gran parte del mondo musulmano, è necessario contrattare su qualsiasi cosa.
Feci per voltarmi e sedermi al tavolo, ma l’ometto mi afferrò per un braccio e con un semplice gesto delle mani mi invitò alla calma. Raccolse la scacchiera e me la consegnò affinché potessi saggiarne la qualità. Io stetti al gioco, rigirandomela tra le mani e osservandone le pedine una per una.
«80» disegnai con le dita.
Al che lo sdegnato fu l’ometto, che si strattonò la veste come insultato.
«450» formulò per risposta.
«100» rilanciai.
Passammo i dieci minuti successivi a rilanciare offerte e controfferte, mentre i miei amici si erano già seduti al tavolo per rifocillarsi con del pane e del cous cous.
L’ometto si prese una pausa, mi invitò a guardare altro indicando dei posacenere dal motivo ondulato e delle brocche la cui forma ricordava un dromedario. Lo assecondai più per cortesia che per interesse e stetti quasi per raggiungere i miei compagni quando il venditore si rifece vivo. Mi prese sotto braccio e con un sorriso malizioso mi invitò a seguirlo. Varcammo una porta sul retro che dava all’esterno, dietro all’edificio. Mi voltai un istante per cercare con lo sguardo gli occhi degli amici, ma non mi videro. Rimasto solo deglutii e presi un ampio respiro, tentai di mascherare la tensione dietro a un comportamento compassato e mi sforzai di apparire il più naturale possibile.
Trovammo ad aspettarci un tavolino rotondo di piccole dimensioni. A illuminarlo c’erano un paio di lampade ad olio che pendevano da dei pali impiantati nel terreno. Oltre questo angusto spazio, reso ancora più minuto dalla presenza di un grosso freezer che ronzava, dal rottame di una Peugeot arrugginita e da alcuni barili traboccanti di immondizia, si diffondeva una fitta vegetazione di arbusti e alberi che salivano sulla collina.
C’erano due uomini già seduti, che mi accolsero mostrando denti ingialliti e barbe incolte. Uno dei due, che aveva il volto segnato da una lunga cicatrice all’altezza della tempia, scostò una sedia e vi batté sopra con il palmo della mano.
«’Ajlis», mi disse, «siedi» tradusse.
Resistetti alla tentazione impellente di voltarmi e correre sul pullman e mi accomodai, con le mani piantate sulle ginocchia per darmi lo slancio qualora avessi dovuto filare.
Un quarto uomo ci raggiunse. Reggeva tra le mani un vassoio che conteneva dei bicchieri con qualche fogliolina di menta e un bricco argentato e fumante. Versò il tè per tutti i presenti sollevando la teiera in alto, sopra la sua stessa testa generando un flusso uniforme che schiumava nei bicchieri senza che ne uscisse una sola goccia. Terminato lo spettacolo prese a sua volta una sedia.
«Bene» proruppe nuovamente l’uomo con la cicatrice. «Italiano?»
Annuì mentre sorseggiai il tè.
«Pizza, Spaghetti, Berlusconi» sbraitò entusiasta.
Gli uomini risero di gusto, mi invitarono ad alzare i bicchieri in un brindisi e cominciarono a chiedere di me, di dove fossi, che lavoro facessi, cosa mi avesse spinto a visitare il loro paese. E io risposi paziente, cercando di farmi capire in qualsiasi modo, alternando gesti all’italiano e inventando un idioma che a parer mio avrebbe ricordato il francese e che li fece divertire non poco. I bicchieri svuotati fecero posto al narghilè. Fumai con loro un tabacco aromatizzato alla frutta e la scacchiera che stavo contrattando apparì sul tavolo. Riprendemmo la trattativa e ricevemmo altro tè.
L’ometto, da quanto fui in grado di capire, spiegò agli altri tre a che punto fossimo arrivati con la vendita. Vidi i loro sorrisi appiattirsi e le teste ciondolare sconsolate, deluse. Alzai l’offerta, come pensai fosse doveroso fare dopo tanta gentilezza, e la reazione fu immediata. Rimbalzammo cifre l’un l’altro e trovammo l’accordo sui 200 Dhiram, ma siccome non mi parvero del tutto soddisfatti recuperai il mio zaino e ne estrassi un paio di t-shirt che tenevo di scorta. Su una di queste era raffigurato nientepopodimeno che il nostro Divin Codino, Roberto Baggio, la ciliegina sulla torta, e gliele donai.
Salutai gli uomini con una calorosa stretta di mano e dopo aver pressato il contenuto dello zaino per far spazio al mio nuovo acquisto tornai sul pullman. Mancavo solo io per la partenza, ma nessuno sembrò infastidito per l’attesa, rispettosi dal primo all’ultimo verso questa usanza pittoresca. Chinai la testa per ringraziare l’autista e ripresi il mio posto.
Ora non mancava che un piccolo particolare... imparare a giocare a scacchi.
Fantastico! Mi ricordo ancora di quel cappellino della volcom.. Mi piaceva un sacco, l'ho buttato pochi giorno dopo, impossibile da pulire..