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Immagine del redattoreAButtus

Non si butta via niente

Il cervello umano è un organo meraviglioso, di una complessità unica, ma che ancora non siamo riusciti a comprendere appieno.

Non ho scoperto l’acqua calda, lo so benissimo. Questa è solo l’anticamera di ciò che tratterà questo articolo, sbocciatomi dentro in maniera del tutto repentina e inaspettata, figlio di una breve percezione sensoriale che mi ha piegato le labbra in un riso sincero.

Non si può scegliere cosa registrare nella memoria. Opera con un filtro tutto suo, che non segue delle regole precise e alle quali non si può mettere paletti. Scandaglia la nostra intera esistenza strappando qualche frammento casuale e ce li affigge in testa come tanti vitali quadretti, o ce li disegna addosso come indelebili tatuaggi mentali.

Il frammento che ha riacceso questo mio ricordo è stato un semplice odore (come molti di voi lo definirebbero), e che per me equivale a un profumo a pieno titolo: un misto di legno vecchio e stantio, di pareti intaccate dall’umidità, di sole caldo sulle superfici fredde e antiche, di mastelli capovolti ad asciugare e di bigonce tinte dal vino, di salsicce e salami appesi a stagionare, di frutta appena colta e radicchio da lavare, di tocai versato nel bicchiere di mio nonno, proprio accanto alla sedia dalla quale sbaccellava i fagioli e raccontava.

Forse si potrebbe obiettare che quanto ho elencato non è un odore soltanto, ma un miscuglio di tante fragranze... E quindi sì, devo ammettere che il mio frammento di memoria è un cocktail di emozioni, un collage di fotogrammi che mi riportano in quel luogo della mia infanzia a cui sono

legato ancora e dal quale non mi separerò mai.


Pochi giorni dopo il Natale, e fintanto che mio nonno Carlo era in vita, era usanza della mia famiglia ammazzare il maiale. Dirlo oggi, che siamo circondati da animalisti arrabbiati, vegani convinti e cittadini inconsapevoli, pare un azzardo... per me, invece, quelle occasioni furono dei veri e propri eventi, giornate di festa che partivano all’alba e sfociavano a notte fonda, ricordi puerili (nonostante il triste abbattimento del suino) che mi porto tuttora nel cuore.

La giornata cominciava di buon mattino. Dopo una colazione consumata alle prime luci mio padre partiva assieme a suo cugino alla volta dell’allevamento. Lì, in compagnia del macellaio, che avrebbe compiuto il delitto e che sarebbe rimasto a lavorare con la mia famiglia per tutto il tempo, veniva selezionato l’ospite d’onore.

Non riuscii mai a partecipare a questo pezzo della storia. Mi alzavo e mi vestivo in fretta e furia, mi recavo in cucina esagitato e impaziente. Quando mi rendevo conto che papà era già partito sbuffavo deluso, mi accomodavo a tavola con il viso imbronciato e la faccia appoggiata sulle mani. Sorseggiavo nervosamente il caffellatte che mi preparava il nonno, che era buonissimo perché... non lo so perché, probabilmente non c’era nessun ingrediente segreto o speciale, era buonissimo semplicemente perché era lui stesso a prepararlo e perché amavo riscaldarmi in quelle mattinate invernali con i suoi sorrisi sottili e con la stufa a legna che scoppiettava accanto a noi.

Li sentivo tornare ancora prima di vederli. La macchina di papà, seguita dal furgone del macellaio, entrava in cortile di ghiaia facendo scricchiolare i sassolini sotto al suo peso. Vuotavo la tazza d’un fiato e correvo fuori, mentre mamma mi rincorreva con la giacca e il berretto di lana che non mi ero preso il tempo di indossare.

Il macellaio parcheggiava il furgone, cui era agganciato un rimorchio per il trasporto bestiame, e scendeva per salutare gli uomini della mia famiglia con una calorosa stretta di mano. Indossava un camice bianco chiazzato di macchie rosate e sbiadite, schizzi di sangue che non sarebbero mai svaniti. Mio padre e i suoi cugini calzavano invece pantaloni da lavoro e vecchi abiti consunti con licenza di lordarsi.



Dopo i convenevoli l’animale veniva fatto scendere dal veicolo. Mio fratello e io l’osservavamo con la bocca spalancata. Noi bolzanini siamo avvezzi a vedere vacche da latte al pascolo e capretti di malga, non maiali. Per noi era pressoché una novità poterne vedere uno in carne e ossa. E devo ammettere che la prima volta, complici anche i cartoni animati in tv, scoprirlo di un colore pallido così simile a quello della nostra stessa pelle, anziché di un bel rosa accesso come me l’ero sempre immaginato, fu una vera delusione. Lo sentivamo grugnire e noi rispondevamo ai suo richiami imitandolo divertiti. A quei tempi eravamo troppo piccoli per comprendere che i suoi versi, in qualche modo drammaticamente simili a un pianto inconsolabile, fossero dettati dalla ferina consapevolezza della fine.

Il macellaio estraeva una pistola da una valigetta che teneva sul furgone, l’armeggiava con fare esperto per prepararsi a colpire il suino. Solo in età adulta scoprii che quell’arma si limitava a stordire l’animale e che la morte sarebbe sopraggiunta solo in seguito, con un coltello affilato a recidergli la gola.

Mio fratello, più piccolo di me di qualche anno, si stringeva alle gambe di mamma e guardava il cortile con un occhio soltanto. Io, che volevo sentirmi più ometto, stavo un metro avanti a lei, con i muscoli rigidi e i nervi a fior di pelle, incapace di distogliere lo sguardo, ma ugualmente intimorito.

Quando il colpo scoccava un brivido mi attraversava il corpo dai talloni fino alla punta dei capelli. Osservavo il maiale cadere a terra con un tonfo, le zampe slombate e vuotate da ogni residuo di forza che scalciavano sui ciottoli del cortile in preda agli spasmi. Qualche minuto più tardi il macellaio affondava la lama nello spesso collo della bestia. Dalla ferita zampillava un filotto di sangue che colorava di rosso i sassolini di ghiaia, come un piccolo geyser mortale. In brevissimo tempo la pressione svaniva e lo zampillo si riduceva in una colata scura, densa e vischiosa.

Mi voltavo terrorizzato e vedevo mio fratello con la faccia affondata nella coscia di mamma, le mani appiattite sulle orecchie e le gambe tremolanti. Io, anche se non lo ammisi mai, faticavo non poco a resistere dal rifugiarmi come lui, perché quando si è bimbi non c’è luogo più sicuro al mondo che le braccia di mamma.

Si sistemava una lunga scala di metallo appoggiata alla balconata del caseggiato dove nonna teneva i polli e i conigli. Le bestiole stavano rannicchiate nelle stie e tra i fasci di fieno e foraggio, rispettosamente in silenzio, mentre gli uomini si apprestavano a sollevare il corpo inerme del suino. Alle sue zampe posteriori venivano piantati dei grossi uncini di metallo lucente e questi a loro volta a delle funi che scorrevano su delle carrucole che penzolavano nel sottotetto. Sotto alla carcassa un catino di zinco ossidato raccoglieva il sangue che fluiva dalla ferita e che in parte sarebbe stato utilizzato per il sanguinaccio. Su un falò improvvisato veniva messo a bollire un ampio calderone d’acqua. Sarebbe servito per liberare la pelle del suino dalle spesse setole che, un volta raccolte e pulite, avremmo consegnato a un laboratorio artigiano per farne dei pennelli.

Il macellaio sviscerava con maestria il ventre dell’animale. Ne recuperava il fegato e lo consegnava a mia nonna che lo riponeva in una ciotola e lo portava in cucina. In una seconda ciotola venivano raccolte le altre frattaglie, i polmoni, la milza, i reni, che un’altra cugina di papà afferrava per seguire nonna. Veniva il turno dell’intestino, il budello, che sarebbe stato pulito, lavato e lessato prima di poter essere pronto per contenere gli insaccati.

La carne a quel punto veniva trasportata in casa, dove un’ampia sala in cotto color mattone erano state già organizzare delle postazioni di lavoro. Sopra di esse erano stati adagiati i macchinari che il macellaio aveva portato con sé, il segaossa, il tritacarne, l’impastatrice per la carne e l’insaccatrice.

Il primo trito finiva in un’ulteriore ciotola di nonna, che lavoratrice infaticabile com’è stata per tutta la vita, si sdoppiava per essere ovunque ce ne fosse bisogno. Si prodigava così tanto che di lei sembrava ce ne fosse due identiche.

Dopo la prima ora di tagli e di triti, l’attrattiva per quel lavoro veniva meno per mio fratello e me. Ormai ognuno degli adulti era impegnato in qualche attività, chi sorseggiando un tajut di Tocai, chi fischiettando sereno e chi assaporando i profumi che cominciavano a diffondersi dalla cucina di nonna. Noi ci sentivamo inermi e inservibili e uscivamo a giocare, tornando di tanto in tanto per annusare dalle pentole.

Per pranzo era usanza preparare il fiât, che nonostante la tradizione friulana lo prevedesse fritto, nonna lo cucinava alla veneziana, con le morbide cipolle che le crescevano nell’orto. Per noi bimbi invece, schizzinosi ai tempi, mamma preparava delle bistecchine ai ferri tanto morbide da sciogliersi letteralmente in bocca.

Quando al pomeriggio veniva il turno di preparare gli insaccati seguivo con attenzione le fasi della lavorazione. Il macellaio riempiva di carne tritata l’impastatrice aggiungendo il suo preparato di spezie, lo faceva amalgamare per alcuni minuti e lo trasferiva nell’insaccatrice, alla cui bocchetta veniva apposto il budello. Mio fratello e io aspettavamo pazienti che il processo iniziasse. Il budello si riempiva come un palloncino e i salami, le salsicce, i musetti, le soppresse, venivano formate con dei velocissimi nodi di spago. Venivano preparate anche le marcundele, piccoli insaccati composti da un misto di frattaglie, grassi teneri e carni sanguinolente e che nonna usava per un sugo per la pasta dal sapore pungente e rustico, che io adoravo.

La prima ciotola di carne tritata invece era sul fuoco ormai da ore, era diventato un pentolone di ragù che insaporito con le spezie coltivate da nonna aveva qualcosa di speciale.

Si cenava tutti assieme, stanchi e felici, un vassoio di polenta risplendeva con un sole giallo e caldo al centro della tavola. I bicchieri tintinnavano in brindisi di giubilo e risa sincere animavano la stanza. Si mangiava pregustando la prima fetta di salame dopo la stagionatura e si raccontavano storie campestri, si condividevano ricordi e pensieri, ci si sentiva uniti.


Con questo profumino che sento nelle narici e con l’aquilina in bocca che mi costringe a deglutire concludo il mio resoconto. Sono cosciente che alcune parti possano essere risultate indigeste (permettetemi la battuta) e adatte a stomaci forti, ma questo credo sia dovuto perché spesso dimentichiamo di chiederci dove ha origine quello che mangiamo, o che usiamo, o che indossiamo... e quindi che ci rimane se non delle belle storie da leggere o da ascoltare?



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