Nel corso di un viaggio in Marocco che compii ormai più di tre lustri or sono mi capitò di dover utilizzare come mezzo di trasporto un pullman scalcagnato.
Per quanto possa sembrare assurdo, l’idea di salire a bordo di un mezzo di trasporto tenuto insieme col nastro adesivo, con croste di ruggine e con plastica fusa, fu per me la realizzazione di un sogno che mi portavo dentro fin da bambino.
Sono un figlio degli anni 80 d’altronde, sono cresciuto in una paesello sovrastato da una montagna e a ridosso della campagna, ho esplorato bunker con gli amici indossando la maglietta di Fonzie, saltellando con le gambette scheletriche e imbracciando una torcia elettrica, ho giocato a guardie e ladri nei tunnel garage e nelle cantine labirintiche del cortile, ho consumato le videocassette di Indiana Jones, di Rambo e dei Goonies.
Per me, viaggiare su un pullman malmesso alla stessa stregua di Michael Douglas nel film «All'inseguimento della pietra verde», equivaleva alla vera essenza dell’avventura.
Osservai proprio il pullman quindi, con un sorriso malcelato mentre gli amici che mi accompagnavano si domandavano, tra un tiro di sigaretta e l’altro, se fosse una buona idea fumare intanto che l’autista trafficava con il cofano aperto e armeggiava col motore.
«Sarà manutenzione ordinaria», ci dicemmo con un alzata di spalle.
Mi sedetti per terra con la schiena appoggiata al fianco del mezzo e, usando il dorso dello zaino come tavolino, mescolai le carte per una mano di briscola. Tanto valeva mettersi il cuore in pace e aspettare.
Mangiammo sempre lì. Seduti a gambe incrociate e le mani impolverate, menù del giorno carne in scatola con forchette di plastica, pane azzimo e un fico d’india. Poi fumammo ancora, ancora e ancora, agognando un caffè forte, o ancora meglio una birra ghiacciata, che in quella stazione degli autobus nel cuore del Marocco era introvabile ed equivoca, religiosamente sbagliata e, di conseguenza, ancor più desiderata.
Quando il sole stette per scendere dietro ai caseggiati di Ouarzazate, la cittadina di terra che ci ospitò nei due giorni passati, l’omone del pullman chiuse il vano motore con violenza. Si passò le mani unte di grasso sui pantaloni e sul petto della camicia e concluse battendo le mani. Emise un fischio che richiamò un addetto che iniziò a caricare i bagagli dei passeggeri. Mentre la gente, visibilmente provata per l’attesa, superava i gradini per salire a prender posto, noi restammo di fianco ai nostri preziosissimi zaini. Ci accendemmo un’altra sigaretta come a voler convincere l’autista, ma soprattutto noi stessi, che non si trovava di fronte a quattro turistelli della domenica. Non quella volta. Eravamo gente di mondo noi, e come tali ci atteggiavamo, pomposi nella nostra insicurezza mascherata, attori di una nonchalance che ci metteva a dura prova i nervi.
L’autista afferrò il mio zaino con uno scossone, impietoso e per nulla impressionato. Caricò il braccio e lo sollevò sulle spalle fino a gettare il mio bagaglio sul tetto del bus, mi strappò la sigaretta dalle labbra berciando in arabo e mi spinse a bordo senza troppi complimenti. Di richiamo i miei compagni mi seguirono senza fiatare.
Prendemmo posto nella parte inferiore del pullman, fianco a fianco, due a due. Osservammo il prosieguo delle operazioni di carico attraverso i finestrini incrinati e sporchi. Il mio vicino si portò una mano alla bocca nel vedere il suo zaino venire lanciato come un sacco di patate.
«La macchina fotografica!» saltò con gli occhi sgranati.
«Ce l’ho io, tranquillo.»
«Bagaglio a mano?»
«Bagaglio a mano,» e ci scambiammo il cinque.
Per concludere l’autista afferrò una rete contenente dei polli in carne ed ossa e la issò a sua volta sul tetto del bus. I pennuti sbatterono le ali e chiocciarono impauriti. Esultai, incapace di trattenere l’euforia... come nei film, mi dissi... sì, proprio come nei film.
Una volta a pieno carico salì a bordo una minuta signora. Un’anziana a giudicare dalla testa tremolante tra le spalle ingobbite e dal bastone che l’aiutava a stare in equilibrio. Questa si fermò a ridosso del sedile dell’autista, proprio nella parte anteriore del mezzo. Eseguì una specie di cantilena con voce roca e nasale mentre noi quattro turisti occidentali l’osservavamo incuriositi. Indossava una veste interamente nera e uno scialle sdrucito dello stesso colore spento. Ci fissò uno a uno, noi e con noi gli altri passeggeri che l’ignoravano come fosse un invisibile fantasma, come se l’anziana fosse distinguibile unicamente da chi ne fosse in grado. I suoi occhi erano velati, spenti, quasi inumani. Erano bordati di rughe che si spargevano come saette sulla sua pelle sottile, o almeno questo fu quello che vidi io, l’unica traccia di un viso stanco occultato dallo Hijab. Estrasse da sotto la tunica l’altra mano, non quella che reggeva il bastone, e d’istinto mi riparai dietro allo schienale del sedile di fronte certo di chissà quale follia. Ma mi sbagliai. Reggeva semplicemente un pentolino di latta ammaccato e sporco dentro al quale non tintinnavano che poche monete.
Fummo in pochi a darle qualcosa. Noi raccogliemmo qualche spiccio e glieli consegnammo con un reverente e teatrale inchino di capo. Lei parve sorridere, perché i suoi occhi ci parlarono, strizzati in un riso grato dietro al velo.
Prima di andarsene strillò qualche parola in arabo che ovviamente non comprendemmo. Alzò il bastone e lo mulinò rivolta a quei passeggeri che insistevano con l’ignorarla. Le grida della donna, cariche di risentimento, cessarono quando fu vinta dal pianto. Disegnò un cerchio nel vuoto con la punta del bastone e scese dal bus, lasciando spazio all’autista che montò per prendere il suo posto al volante.
«Minchia, scendiamo subito,» ci pregò il mio vicino.
«Che stai dicendo? Finalmente si parte,» protestai dandogli un colpo col gomito sulla spalla.
«E se c’avesse maledetti?»
...continua...
Fantastico! Che ricordi... ;-)