A volte ci si mette di mezzo l’orgoglio e, quando lo fa, sarebbe meglio sollevare le spalle, voltarsi e tornare a sedersi.
Più facile a dirsi che a farsi.
Questo weekend sono stato vittima di una specie di infortunio. Come aggravante devo aggiungere che sono stato io stesso a far sì che questo si verificasse.
Per trascorrere un sabato diverso dal solito abbiamo scelto il parco avventura di Caldaro. L’idea era quella di imbragare i bambini e fargli attraversare ponticelli di corda e superare percorsi sospesi in compagnia delle mamme. Io, di mio, non avevo la minima intenzione di partecipare. Mi sarei accontentato di scattare qualche fotografia dalla terra ferma, ascoltare un po’ di musica seduto a un tavolo ombreggiato dai pini, preparare la merenda per tutti tagliando salame e formaggio e stappare una bottiglia di merlot in santa pace.
La giornata è scorsa pacifica finché non sono stato additato come fifone, come colui il quale non partecipava ai volteggi perché impaurito dall’altezza. L’accusa, infondata, ha dato uno scossone al Marty McFly che c’è in me, quello che come il protagonista dei Ritorno al Futuro, incapace di accettare una tale ingiuria al suo buon nome, avrebbe dimostrato il contrario a qualunque costo.
Ho indossato un’imbragatura e mi sono avventurato sul percorso più impegnativo, quello bollato con il colore nero e vietato ai minori. Ho iniziato la salita grintoso e smanioso di zittire le malelingue, faticando non poco per raggiungere l’altezza prevista grazie a una scala di corde. Dopo aver ripreso fiato è venuto a farmi visita il mio angioletto interiore. Mi ha picchiettato sulla tempia e mi ha sussurrato di ritornare sui miei passi, mi ha fatto notare che i muscoli mi stavano già dolendo oltremodo, che il fiato era corto (anche a causa della poca attività fisica durante il lockdown). Ma come di consueto, in casi come questo, dal lato opposto della testa, a sussurrarmi malvagità nell’orecchio, ecco il diavoletto.
«Dai, mezza calzetta. Non gliela darai mica vinta, vero?»
Mi sono sporto e ho guardato da basso, nessuna vertigine, nessuna paura, nessun problema. E allora via, non resta che andare oltre.
Ho appoggiato i piedi su un piolo di legno retto a penzoloni da alcune corde e, certo di essere in buon equilibrio, ho abbandonato la passerella. I piedi hanno iniziato a muoversi freneticamente a destra e sinistra, in avanti e indietro, come se stessi litigando con la lastra di ghiaccio più scivolosa di sempre. L’adrenalina era tale che le mie braccia non cedevano, stavano in tensione per trattenere da sole tutto il mio peso in equilibrio precario. Con il cuore in gola e l’orgoglio come frusta mi sono costretto a continuare. Le braccia strette attorno alla fune di metallo che collega i percorsi e la pelle che veniva segnata dallo sfregamento, le gambe che tentavano goffamente di stabilizzarsi sugli appigli, mentre mi trascinavo faticosamente sulla passerella successiva.
Passo dopo passo (da sotto dovevo apparire come un fantoccio incastrato tra dei fili da bucato) ho proseguito il tragitto, e raggiunta l’ultima pedana (che ammetto non si trovava neanche a metà percorso, ma vi partiva una zipline che fungeva da uscita d’emergenza) avevo i muscoli a pezzi. Faticavo a sollevare le braccia e piegare i gomiti. Il respiro non accennava a placarsi, il cuore batteva all’impazzata. Ho riposato per buoni dieci minuti prima di aver sufficiente sensibilità nelle dita per agganciarmi alla zipline e lasciarmi andare, per farmi trasportare dal mio stesso peso fino al sicuro sulla terra.
Mi sono accorto subito che qualcosa non andava. Ero incapace di tranquillizzarmi, sentivo sul petto il peso di un macigno che schiacciava, schiacciava e schiacciava. Gli amici e i famigliari hanno notato subito che il mio colorito si era fatto cinereo, le labbra sul pallido andante. La diagnosi è stata quella di una sorta di shock causato dello sforzo prodotto. Mi ci è voluta un’ora circa per tornare in me.
Questa mia disavventura, della quale porto i segni alle braccia a causa delle abrasioni sul cavo di acciaio al quale stavo appeso come un cotechino, è qualcosa che non escluderò a priori un domani, perché sarebbe troppo facile lasciar perdere e voltarsi dall’altra parte.
Sono questioni diametralmente opposte, ma sento che in qualche modo anche la scrittura è sottoposta alla stessa tenacia. Quanto ho raccolto finora è solamente una briciola di quanto ho seminato, del tempo che ho investito, delle parole scritte, cancellate, e riscritte, delle trame imbastite e accartocciate, dell’entusiasmo profuso.
Avrei potuto annichilirmi più e più volte a causa delle porte che mi si sono chiuse in faccia, dei riscontri mancati, dei commenti negativi, ma non ci riesco, è più forte di me. Sarebbe come venir meno a un desiderio che mi abita dentro, che a modo mio sfamo e vedo crescere, che custodisco possessivo.
Non nego però che l’idea di tirare i remi in barca, e lasciare che questa mia passione andasse alla deriva, ha bussato alla mia porta numerose volte. Ma basta un attimo, un solo sguardo, una sola pacca sulla spalla, un solo sorriso che fa capolino da dietro le pagine di un libro, per alimentare il fuoco che sento sempre lì.
La ricetta giusta è l’aver imparato a scrivere per me stesso e poi che sia quel che sarà. Continuerò a condividere le mie storie e sperare che chi le leggerà non ne rimarrà deluso.
Come dice Alex Zanardi, al quale faccio il mio più sincero in bocca al lupo, la vita è come il caffè, puoi metterci tutto lo zucchero che vuoi, ma se lo vuoi far diventare dolce devi girare il cucchiaino. A stare fermi non succede niente.
Grazie Simo, tu eri testimone oculare...
Complimenti Ale per la descrizione del momento.
Sei riuscito a farmi vivere nuovamente quella sensazione di paura e limite ...