"Vienici una volta,” ripeteva mamma come un disco rotto, “una volta sola. Vedi com’è, sono certa ti piacerebbe. Che ti costa?”
Ma io restai fermo sulle mie idee, risoluto o forse testardo, titubante e del tutto disinteressato. Mi ero messo in testa che il baccanale organizzato da un prete fresco fresco di insediamento, catapultato forse per dispetto o punizione dal caldo sole siciliano fino a questo sperduto paesetto a ridosso delle Alpi, fosse soltanto un pacchiano tentativo di amicarsi i locali, gente forgiata dal lavoro nei boschi, indurita dal freddo e schiva di natura.
Eppure…
Mentre io scelsi di affrontare l’inverno come avevo sempre fatto, e cioè scaldarmi con la grappa in osteria e giocare a carte coi ragazzi della cava, mamma e papà si fecero coinvolgere dall’idea sovversiva e scomoda di Don Calogero. E assieme a loro (non riesco ancora a spiegarmi come sia potuto accadere) anche gran parte dei nostri compaesani, e per di più molti altri abitanti nelle frazioni di Sintello e di Durna, furono ammaliati dal progetto e vollero farne parte.
Il tutto cominciò quasi per gioco durante la predica di una domenica particolarmente fredda. I riscaldamenti, cosi come ovunque a causa della crisi energetica, erano spenti da un paio di settimane. Mamma raccontò che il parroco disse messa con un berretto di lana calzato sul capo e guanti di pelle alle mani. Fece notare ai presenti che ognuno di loro producesse nuvolette di vapore acqueo a causa del freddo e sodalizzò con loro ringraziandoli per la massiccia partecipazione nonostante le condizioni proibitive.
“Non è un castigo, non è un dramma e non è necessario piangerci addosso. E’ un’opportunità che non dobbiamo farci sfuggire,” proruppe con voce tonante, “possiamo riappropriarci della nostra umanità. Riuniamoci sotto un solo cielo, rendiamo nostra la casa del Signore, diamole vita, diamole fuoco!”
Quando il brusio di disappunto dei fedeli sfociò in un berciare sbigottito e risentito, Don Calogero alzò le mani per richiamare l’attenzione e fu in quell’istante che il piccolo prete, con un sorriso sornione a colorargli il viso, presentò la propria idea: la transumanza.
Nonostante il termine transumanza, tanto caro a noi gente di montagna, sia notoriamente riferito al bestiame, la spiegazione del prete suscitò curiosità tra gli anziani e risa tra i più giovani. A migrare stavolta non sarebbero state le greggi e le mandrie, ma gli uomini stessi. Avrebbero mosso i propri cuori dalle fredde abitazioni sui declivi per condurli in un luogo comune che avrebbe funto da pascolo: la chiesa.
In breve tempo il cortile antistante la parrocchia si tramutò in un cantiere a cielo aperto. Gli artigiani offrirono il proprio tempo per creare ciò che la mente del prete aveva progettato. Vennero forgiate delle grosse canne fumarie e installate in vari punti della navata. Sotto di esse si organizzarono degli ampi focolari mentre i banchi, da sempre schierati in parallele file che si snodavano dall’altare, furono sistemati in un’ellisse che tanto ricordava la curva di uno stadio. Don Calogero insistette affinché i falegnami chiudessero le campate con dei recinti di legno, al loro interno fu ammucchiato del fieno e del foraggio e i malgari vennero invitati a portarvi alcune delle proprie bestie, cosicché la chiesa fu avvolta dall’odore campestre e dal suono di costanti belati e sparuti muggiti.
A lavoro ultimato il prete raccolse a sé i fedeli. Li fece accomodare sulle panche e si sedette assieme a loro.
“Eccoci qui riuniti,” esordì. “Grazie a voi, con l’aiuto di tutta la comunità, abbiamo formato quello che ricorda un presepe. Questo termine deriva dal latino prae, che significa “innanzi” e saepes che vuol dire “recinto”, e noi ora siamo proprio questo, radunati all’interno di questo spazio che ci siamo creati per scaldarci gli uni con gli altri e fare dell’insieme la forza e il coraggio che ognuno dei singoli necessita. E’ il signore nostro Dio che ci ospita, ci offre il tepore del fuoco che brucia nei bracieri e a noi non resta che accettare questo dono con tutto noi stessi. Vi aspetto ogni sera d’ora in poi, per tutto il tempo necessario. Ci raccoglieremo attorno alle fiamme e sconfiggeremo l’inverno.”
Vinto dalla curiosità mi ci recai un giovedì dopo cena, e appena varcata la soglia della chiesa venni pervaso dal gradevole tepore generato dal fuoco. Mi osservai intorno stranito, come se fossi stato spedito indietro nel tempo e mi fossi ritrovato in un maniero medioevale. La navata era illuminata dai focolari accesi e dalle fiaccole affisse alle pareti, e a renderla viva una moltitudine di persone svolgevano le più disparate attività, chi si limitava a chiacchierare, chi a giocare, chi a leggere, chi a sferruzzare lana, chi ha intrecciare cesti di vimini, chi a sbaccellare i fagioli, chi a sgranare il rosario. Della musica si diffondeva dalla sagrestia: una chitarra, un violino, dei flauti, perfino un clarinetto. Alcuni danzavano sulle note delle loro melodie. Osservai le capre saltellare in recinti improvvisati e vacche ruminare il fieno che gli veniva offerto dalle mani di bambini sorridenti. L’odore degli animali, tuttavia, era sovrastato dal profumo invitante che fuoriusciva dai calderoni che ribollivano sul fuoco e nei quali cuocevano la polenta e lo stufato.
Mi sedetti in uno spazio libero che trovai su un panca e osservai i volti della gente dipinti dalle fiamme scoppiettanti. Incontrai lo sguardo di mamma che annuì con un ghigno vittorioso e, poco più in là, quello di mio padre, che si alzò dal suo posto per dividere un bicchiere di vino e brindare con me.
Dopo quel primo impatto trascorsi in chiesa ogni sera dello strano inverno che fu quello del 2022. Imparai a intagliare il legno grazie agli insegnamenti del buon Fabrizio, il falegname. Divenni uno specialista delle zuppe, impegnandomi a cucinare assieme a zia Marta. Ma soprattutto, oltre ogni ragionevole dubbio, l’incontro più importante della mia vita avvenne proprio tra quei banchi e fu quello con la donna che è ora mia moglie. Simona, che seguendo il richiamo che giungeva dalla nostra parrocchia salì fin da Nuervo per unirsi a noi, e conoscere me. Ci bastò un sguardo per sentirci affini, due parole per presentarci e un sorriso soltanto per innamorarci.
Ma questo racconto non riguarda Simona e me, ma don Calogero e la transumanza, il presepe tanto caro al suo gregge di fedeli o presunti tali, e quel che conseguì al declino dell’inverno.
La gioia della chiesa festante raggiunse i vertici della curia in breve tempo, ne fu discusso in consiglio comunale prima e in quello provinciale poi. Periti assicurativi, esperti di sicurezza, forze dell’ordine vennero incaricati di indagare sulla legittimità del raduno, e non appena stabilito inappellabilmente che il buon cuore di Don Calogero fosse germoglio di un’attività vietata e irregolare venimmo fatti sgomberare come un campo di profughi e cacciati in malo modo. Avvenne un venerdì sera di tardo febbraio. A ristabilire l’ordine intervenne il Vescovo in persona, scortato da una coppia di Carabinieri e un funzionario della questura. Si presentò impettito, con una sciarpa di lana al collo e un giaccone di montone. I vigili del fuoco spensero i focolari senza troppi complimenti e ognuno di noi fu invitato a raccogliere le proprie cose e lasciare la chiesa.
Don Calogero si presentò ai militari porgendo i polsi con fare polemico. Non venne arrestato ovviamente, ma fu trasferito in Sicilia da lì in pochi giorni nonostante le rimostranze dell’intera comunità. Venimmo a sapere mesi dopo che gli fu concessa la parrocchia di un pittoresco comune dell’entroterra ennese, mentre a noi rimase una chiesa infreddolita e spoglia, oltre a un nuovo parroco, scontroso e di poca lena.
Mantenemmo però la nostra unione ritrovata. La transumanza deviò tra le mura di un maso da ristrutturare e ricreammo il presepe, decisi a non farci scoraggiare e pronti a sfidare i futuri inverni.
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