L’ho vista ti dico. L’ho vista sul serio. Non l’ho immaginata, sono pronto a scommetterci un braccio, o un gamba, o tutte due senza tentennamenti. Perché non mi credi? Ti ho mai mentito forse? Sì, lo so, lo so. Perfino io non riuscivo a credere ai miei occhi, l’ho cercata per anni tra i volti della gente e no, non è stato un abbaglio. Era lei, lei in carne e ossa. La riconoscerei tra un milione, tu meglio di chiunque altro dovresti sapere che non esagero nell’affermarlo. Sarei in grado di dipingerla in maniera così accurata che potresti scambiarla per una fotografia. Sono lineamenti che fanno parte di me, i suoi, incastonati nella memoria come geodi nella roccia, curve sinuose che sfilano nei ricordi mentre dormo, mentre sogno, mentre sogno lei con me, mentre sogno lei con noi, mentre sogno noi.
Che importa quel che è stato? Dove mi possono condurre le domande senza risposta con le quali ho imparato a convivere? Che senso avrebbe ostinarsi a spiegazioni dolorose e deleterie? D’altronde non si innalza una torre accanendosi sulle fondamenta, una pianta muore se le si recidono le radici.
Sì, sì, amico mio. E’ quello che insinuo. Ci credo ancora, non ho mai smesso. L’amore vero non si sgretola come un grumo di sabbia, ma si modella e si perfeziona, e non importano le asperità del percorso, le insidie acquattate in ogni dove, gli ostacoli che punteggiano il selciato e gli impicci cui ci si troverà a incappare; importa la meta.
Non dimentico. Non scordo le notti insonni a tormentarmi e torturami, le lacrime che mi scavavano il viso mentre osservavo nostro figlio dormire e lo cullavo tra le braccia mentre succhiava dal biberon e mi punzecchiavo il polpastrello sul suo primo dentino e gioivo d’orgoglio per i sui primi passi caracollanti e subivo inerme la sua prima parolina, quella destinata a lei ma che non ha sentito mai. Sono cicatrici e con le cicatrici ci si convive.
Ho omesso un particolare negli anni, una postilla di cui non ti ho mai reso partecipe nonostante le nostre lunghe e frequenti chiacchierate. Una fantasia, credevo, quando invece, forse, era un monito nefasto che non sono stato capace di cogliere quando avrei dovuto, quando avrei potuto ancora salvarci.
Accadde qualche giorno prima che lei se ne andasse, il nostro ultimo litigio. Tranquillo. Eviterò di ripeterti per l’ennesima volta ciò che ci dicemmo allora, sarebbe un’inutile perdita di tempo e sarebbe un argomento talmente trito e ritrito da renderlo antipatico. Eppure, tra le reminiscenze che mi abitano dentro, ce n’è una che mi rosicchia dentro come un tarlo. Dopo l’ultima parola, dopo che lei si voltò per ripiegare in camera da letto con gli occhi pesti e i singhiozzi implacabili, percepii un vento gelido attraversarmi la schiena.
Lì per lì non ci diedi peso. Ero incapace di formulare un pensiero di senso compiuto che fosse diverso dal terrore insostenibile di stare per perderla. Nel preciso istante in cui la porta si chiuse dopo averla inghiottita, venni investito da un brezza improvvisa. Mi strinsi nelle spalle, intirizzito, la mia spina dorsale fu scossa da un tremore improvviso, le braccia arruvidite dalla pelle d’oca e percepii sudore gelido alla base del collo. Mi domandai, quella notte stessa, raggomitolato insonne sul divano, da dove provenisse quel fiato, così fuorviante nel crepuscolo di maggio e così disgraziatamente premonitore del gelo che mi avrebbe intrappolato il cuore, brina fresca all’inizio, ghiaccio spesso da lì a qualche settimana dopo, quando avrei compreso che non l’avrei vista più.
Ma è tornata. Questo cambia tutto. Non puoi impedirmi di gioire di questo, amico mio. Devi accettarlo, non mi servono a niente ora le tue riserve e i tuoi giudizi. Sì, devo dartene atto, non potrò mai perdonarmi per averti torturato con il mio dolore e con i miei piagnistei. Sono tante le cose per le quali devo fare ammenda, non solo nei tuoi confronti, ma anche verso lei, anche verso mio figlio. Dimenticare le nottate di noi due non posso farlo, non potrei neanche volendo. Tu e io seduti sul balcone col Babyfon sul tavolino, due ampi bicchieri colmi di rum, un posacenere traboccante di mozziconi e un’imprecazione più del dovuto. I miei sfoghi s’intervallavano al silenzio tombale quando l’apparecchio gracchiava. Mi sembra ancora di vederti, di vederci. Entrambi con l’orecchio teso ad ascoltare il sonno di quel neonato che si è trovato senza madre. Quasi quasi speravi ti udirlo piangere, non negarlo. Non era crudeltà o sadismo la tua, ma il gusto fraterno di poterti offrire al posto mio, farti carico dell’incombenza di sollevarlo dal letto, stringertelo al petto e volergli bene. Sei sempre stato pronto a incassare la mia rabbia come il più tosto dei pesi massimi, a saltellare come un funambolo sui miei incontrollabili sbalzi d’umore, a prendermi per mano e urlare con me verso il cielo, neanche la colpa fosse sua, del cielo intendo, ma forse lui sapeva... e ha taciuto sempre, se non con quell’incomprensibile soffio di vento freddo sulla pelle che ancora oggi non mi spiego e non ha mai smesso di darmi i brividi.
No, amico, non è ostinazione la mia. O forse sì, poco importa. Posso scegliere di mio e io decido di cercarla e di ascoltarla. Non provarci neppure a far partire la ramanzina, sai che sarebbe una lotta persa in partenza.
L’ho vista, questo è quanto e questo è tutto. Comprendo le sue remore nel contattarmi. Dev’essere straziante per lei affrontare da sola questa situazione, gestire il desiderio di ritrovarmi, di ritrovarci entrambi, me assieme al frutto del nostro amore più puro, non il fagotto che ha lasciato, ma l’ometto che mi gira per casa e che non ha mai smesso di cercarla.
Rispondere al suo perché io una mamma non ce l’ho è stata l’impresa più difficile di tutta la mia vita. La mia fortuna ora è che potrò finalmente smettere di mentirgli e che sarò liberato da quel chiodo fisso di scoprire un giorno gli altarini, quando sarebbe stato abbastanza grande da sapere, e forse da accettarlo, che mamma è fuggita e che l’ha abbandonato, che ha abbandonato tutti e due senza voltarsi indietro ed è scomparsa dai radar delle nostre esistenze per gran parte della sua infanzia. E questo perché lei è qui, tornata in punta di piedi e titubante, e io ne sono certo che sta solo prendendo un profondo respiro prima di compiere quel passo in punta di piedi per raggiungerci.
Se solo sapesse che non la biasimo… se solo avessi la possibilità di farle sapere che l’aspetto ancora, allora sì che potremmo chiudere il cerchio e vivere felici.
Scuoti il capo di continuo, perché mai? Non era lei, vero? Non era lei... ma forse un giorno...
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