Sei minuti allo scadere.
Impossibile fare a meno di osservare il cielo a ripetizione. Mi accorgo di avere costantemente il naso all’insù, con la coda dell’occhio sempre lì, così come chiunque mi sia intorno e immagino così come ogni singolo essere senziente su questa terra.
Il creato, o chi per esso, ha escogitato uno stratagemma biblico e sadico per decretare la nostra fine. Il conto alla rovescia si staglia sulle nostre teste come una spada di Damocle dal filo sottile e sfilacciato. Scandiva le ore, ormai ferme sullo zero, spreme i minuti, quasi agli sgoccioli e muove i secondi che corrono con impietosa velocità.
I suicidi non fanno più notizia ormai. Niente lo fa più, a dire il vero. La gente che non riesce a sostenere l’attesa opta per anticipare il Buco togliendosi la vita e i loro corpi giacciono lì dove si sono spenti, senza nessuno che si preoccupi di spostarli. O almeno di coprirli con un telo.
Ho salutato mamma ieri sera, prima di rinchiudermi in me stesso. Aveva preparato un’ultima cena coi fiocchi, le pappardelle coi funghi e il polpettone con cui mi viziava da bambino, quando papà ancora era vivo e che entrambi ora invidiamo, risparmiato dell’agonia di questi giorni. Mamma ha insistito per sfogliare gli album delle foto. Gliel’ho concesso, ma avrei fatto salti mortali pur di scappare altrove e darmi ad altro. Lo spauracchio della fine genera la caotica bramosia di concludere quello che si è lasciato in sospeso, di porre fine a conti aperti, di salutare le persone che ci hanno amati, e perché no, maledire, una volta per tutte, chi l’ha meritato. E io non faccio eccezione.
Mi sono seduto con lei, fianco a fianco sul divano, fremevo, mentre ricordavamo il passato e mi perdevo il presente, figurarsi il futuro che nessuno avrà e che è già scritto sulla clessidra celeste.
E dopo le foto ci siamo gustati un tè dal davanzale, giusto per ammazzare il tempo che già latita. Gli occhi verso il cielo macchiato dall’orologio olografico che qualcuno ha messo lì, in rilievo sul sole e sulle nuvole, sull’azzurro e sul nero della notte e che è visibile in ogni angolo del globo, senza distinzioni di sesso, razza, religione, orientamento sessuale e credo politico.
Rammento ancora il giorno in cui apparve per la prima volta. Un ricordo nitido come quello dell’11 settembre o degli ultimi mondiali vinti nel 2006. Di punto in bianco in mezzo al cielo, in ogni cielo in ogni dove, apparve un orologio diafano che iniziò col contare alla rovescia. 2376 ore per l’esattezza, poco più di tre mesi.
Nel preciso istante in cui i numeri sorsero sopra alle nostre teste, nel mondo accaddero una moltitudine di disgrazie. Nessuno di noi ne era preparato, tanti vennero sorpresi a tal punto da provocare incidenti stradali distraendosi a fissare quelle cifre lassù in alto, cosicché le televisioni si inzupparono di reportage che spargevano teorie su teorie e servizi di cronaca su migliaia di tamponamenti a catena e autovetture finite fuori strada .
Lo shock mondiale fu il realizzare che il contro alla rovescia non era un’esclusiva di una precisa area geografica, ma che questo fosse visibile in ogni istante da qualsiasi luogo, come se le coordinate avessero perso valore e quel messaggio, da chiunque esso provenisse, riguardava l’intera umanità, nessuno escluso.
Mamma e io abbiamo osservato il quartiere con la tazza fumante stretta tra le mani. E’ avvizzito, decrepito, tetro. Dalle finestre dei vicini le candele baluginavano, udivamo il loro sommesso chiacchierare. Da quando hanno staccato l’elettricità ci si sente più vicini agli altri, le orecchie non sono inquinate da televisioni accese, transistor di qualche tipo, musica a tutto volume. Anche le auto giacevano addormentate, per lo più inservibili, svuotate dalla benzina quasi tutte, usate allo stremo per raggiungere famiglie lontane, spinte dall’orologio cui non si può sfuggire e ora ferraglia abbandonata sui marciapiedi e nei vialetti.
«Lo senti questo odore?» mi ha domandato mamma di punto in bianco.
Teneva lo sguardo fisso in cortile. Sotto le fronde dell’acero su cui mi arrampicavo da bambino e dove il corpo di una giovane ragazza sembrava addormentato.
«E’ il fetore della paura. Lo emani anche tu e l’aveva pure lei prima che si togliesse la vita. Non io, che ho vissuto abbastanza e sono pronta. La consapevolezza della data di scadenza sta facendo sì che la nostra umanità sia perita prima di quando lo saranno i nostri corpi.»
Due minuti allo scadere. Le strade sono per lo più deserte. Scorro con la bicicletta senza meta. Non esistono più le mete. Le ho terminate con Samira ieri notte, che non mi aspettava, che aveva stabilito di escludermi dall’equazione e mi ha salutato con una fredda stretta di mano. Neanche l’apocalisse mi redime dagli errori passati, neppure lo spettro della fine per un suo ultimo sorriso.
Le lacrime arrivano inaspettate. Le sento sulla pelle mentre pedalo e mi guardo in giro. La gente si raccoglie in questi ultimi istanti, famiglie riunite e comunità strette in abbracci disimpegnati. Gli sguardi levati in alto ad accompagnare il poco tempo che ci rimane.
Scoccato il minuto le voci di tutti si uniscono all’unisono, contano insieme come un solo popolo, come un'unica civiltà ritrovata.
Io solitario come mi sono sempre sentito. Ed è inutile che menta a me stesso. Sarebbe ipocrisia. Devo solo accettare il mio destino.
Fermo la bicicletta all’imbocco del ponte che conduce fuori città, riavvolgo il nastro di quella che è stata la mia esistenza e scrollo le spalle sapendo che è finita e non ci sarà redenzione.
Alzo lo sguardo un’ultima volta sulle inarrestabili cifre dell’orologio celeste, poi chiudo gli occhi. Apro le braccia, le allargo verso il cielo pronto ad abbracciare la morte. Non sentirò più niente. Non sentirò più…
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