Se c’era una cosa in cui nonna eccelleva era il raccontare storie. Ci sedevamo spesso sotto l’antenna ad ascoltarla, a gambe incrociate e le mani giunte sotto al mento. Non eravamo solo nonna e noi, anche altri si avvicinavano quando sapevano che stava per cominciare e nonna, pazientemente, aspettava. Si sedeva sul suo scranno occasionale, la cassa di derivazione per le batterie, e si sistemava uno scialle sulle gambe. Per concentrarsi intrecciava i suoi ferri con i fili di lana. Gomitoli li chiamava, e affermava anche che i gattini impazzivano a giocare con quelle soffici palle colorate.
Quando attorno a noi si era creato un nutrito semicerchio di curiosi lei iniziava a raccontare. Giurava sempre che le sue storie riportassero fatti realmente accaduti, che anche particolari che a noi sembravano del tutto improbabili, se non addirittura assurdi, fossero veri e inconfutabili, e che le persone che descriveva le avesse conosciute per davvero.
Becca e io adoravamo le sue vicende e la stuzzicavamo anche quando la folla si era già dispersa affinché lei ci concedesse qualcosa in più, qualche frammento per noi soltanto, briciole di cui entrambe eravamo insaziabilmente golose.
Tra tutte forse, la storia che più mi rapii negli anni, fu proprio una delle prime che nonna condivise. Non riuscivamo a prender sonno quella sera, eccitate ed esagitate nell’attesa della festa per l’anniversario dell’approdo che avrebbe avuto luogo l’indomani. Nonna apparve nella nostra cabina con un vassoio tra le mani e due tazze fumanti che emanavano aroma di fisto e di gruglie, due piante endemiche nei nostri boschi, e che lei ci assicurò ricordassero alla lontana i suoi amati fiori di camomilla.
Quando aveva poco più della nostra età (ai tempi eravamo appena quindicenni) fece un incontro che le cambiò la vita per sempre.
Era un giorno di piena estate, di quelli durante i quali le ragazze come lei indossavano pantaloncini cortissimi e sottili camicette, in cui erano solite trascorrere i pomeriggi a bordo del fiume, a schizzarsi d’acqua con le amiche, a prendere la tintarella sdraiate sui prati, a sfogliare margherite sperando in un m’ama, e scambiarsi bocconcini d’anguria tagliata a cubetti e sentire il solletico dell’erba alta sulle gambe.
Poco distante i ragazzi, quelli dell’accademia, che si sfidavano l’un l’altro a chi riusciva a stare per più tempo a penzoloni da un ramo prima di mollar la presa. Tra loro, ma lei ancora non poteva saperlo, si nascondeva nonno. Le chiedemmo per quale motivo lei pronunciò proprio la parola «nascondersi» e lei rispose che lui non era come gli altri, non si metteva in mostra esibendosi in mascoline prove di forza e che non lanciava occhiate furtive alle sue amiche parlottando sottovoce coi commilitoni. Nonno stava in disparte, sdraiato a terra su un fianco, con un gomito piegato sotto la testa a mo di cuscino e il ciuffo biondo che ondeggiava sospinto dal vento. Leggeva. Nonna non gli chiese mai di che libro si trattasse. Era convinta (e con cognizione di causa continuò a esserlo) che così facendo la curiosità di sapere l’avrebbe tormentata come un tarlo, e questo segreto mantenuto avrebbe reso quel loro primo incontro un sigillo indelebile nella sua mente.
Quando gli occhi di nonno si alzarono dal libro i loro sguardi si incontrarono. Fu come se lui sapesse esattamente dove cercare per trovarla, come se avessero ricevuto un richiamo e si fosse limitato a rispondere, ad accettarlo e seguirlo. Le sorrise. Lei arrossì, ma si fece forza e mantenne lo sguardo. Lui si alzò e cominciò a camminarle incontro. Nonna giurò a più riprese che in quel preciso momento il suo corpo smise di ubbidirle. I suoi piedi si mossero contro la sua stessa volontà, qualsiasi opposizione della sua coscienza venne sconfitta da qualcos’altro, da quell’entità, lei disse, che abita nel profondo del cuore di ognuno di noi e che si risveglia una volta soltanto in una vita intera.
A questo punto della vicenda la storia di nonna fece un po’ cilecca. Disse che il gruppo delle sue amiche e quello dei cadetti non distassero che una cinquantina di metri, eppure assicurò, a Becca e me, che il nonno e lei impiegarono un sacco di tempo prima di trovarsi faccia a faccia, come se il loro incontrarsi sfuggisse sopra una coppia di tapis roulant diametralmente opposti, dannatamente pigri ma, al tempo stesso, teatralmente romantici.
Si baciarono prima ancora di conoscere i loro nomi, accerchiati da coetanei divertiti e coinvolti che applaudivano e festeggiavano. Prima ancora che il tramonto calasse su quella giornata estiva, nonna sapeva che l’avrebbe amato ogni giorno della sua vita.
Se ora sono qui, in plancia passeggeri con la cintura ben allacciata e lo sguardo sulla sfera bluastra che risalta tra le stelle, è proprio per una promessa che feci a nonna dopo uno dei suoi racconti sul suo sposo, proprio quella volta che anche Becca non resse e dovette asciugarsi le lacrime col dorso della mano. Le promisi che se mai i Primi, storicamente contrari al nostro controesodo, avessero alzato bandiera bianca e inviato una missione sulla Terra, mi sarei arruolata a mia volta e l’avrei portata assieme a me.
Strinsi l’ampolla con le sue ceneri tra le mani e la levai in alto, rivolta alla vetrata sullo spazio.
«Ecco nonna,» sussurro con gli occhi gonfi dal pianto, «come promesso, ti riporto a casa, ti riporto da lui.»
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