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Immagine del redattoreAButtus

Monti pallidi

Cara Marta,

ti scrivo di notte. Se solo tu potessi vederla.

Oggi comprendo perché i locali chiamano le loro montagne i Monti pallidi. La luna rischiara il buio e si riflette sulle cime e sui declivi. La roccia bianca pare accendersi di luce e le stelle sono fiori di botton d’oro sul prato notturno steso dal cielo. E’ un luogo magico e di una bellezza incredibile, di cui mi sento un intruso.

Sono così stanco e infreddolito. Scrivo con le dita che governano a malapena la penna tanto sono indurite e insensibili. Anche l’inchiostro si fa denso e viscoso sulla carta da lettera, ne ho vinti alcuni fogli giocando a carte con un ragazzo di Sondrio. Ne aveva un bel po’ infilati nello zaino, consegnarmene qualcuno gli è costata fatica, gliel’ho letto in faccia. Dice che carta e penna sono un bene essenziale per non impazzire del tutto nelle infinite notti in trincea, si finge di essere da un’altra parte e si occupa la testa col pensiero di chi ci aspetta tornare. Lo emulo stringendomi nella giubba e avvolto da una coperta cerata, ma il freddo non passa. Mi vedo con te sul viale, con mia madre e mio padre nei campi, cerco il tepore tra i ricordi delle estati in riviera che sembrano appartenere a un tempo lontano.

Prego spesso. Guardo in alto dove salgono i fumi degli spari e cerco Dio, lo imploro di proteggermi, me così come i miei compagni. Siamo così diversi l’un l’altro, ma altrettanto simili nel dolore che ha dipinto i nostri volti, maschere di paura e di terrore. Sono svaniti i tratti giovanili che avevamo impressi in faccia i primi giorni, siamo invecchiati anzitempo, i lineamenti fanciulleschi dei visi si sono induriti e squadrati, si ride poco, si parla poco, si sospira e si trattiene il fiato.

Non voglio spaventarti, amore mio. Non temere per me. Sto bene e affronto ogni istante con coraggio. Non sono solo, faccio parte di un gruppo di fratelli d’armi che si rincuorano a vicenda e andrà tutto bene.

I cannoni tacciono finalmente. Col tramonto, assieme alla notte è calato il silenzio. Stremati anche loro come noi. Gli austriaci ci sovrastano dalla cima del Lagazuoi. Durante il giorno li vediamo brulicare come formiche sulle cenge, indaffarati in trincea con le teste basse e le orecchie tese. Scavano nuovi camminamenti, trasportano munizioni, si preparano per combattere. A quest’ora invece sono esattamente come noi, spaventati e intirizziti, nostalgici e tristi. Lo so perché il maggiore Martini ci conduce ogni notte in brevi incursioni notturne sotto le loro postazioni e siamo talmente vicini da riuscire a percepirne lo scoramento, udirne le voci sofferte e strozzate, tanto similari alle nostre nel significato quanto opposte nell’idioma.

Con i commilitoni cerchiamo di farci coraggio l’un l’altro. Teniamo alto l’umore come possiamo, si gioca a carte, sorseggiamo liquore per scaldarci, qualcuno intona un canto, tanti pregano tenendosi per mano. Cerchiamo di cancellare dagli occhi il colore del sangue dei nostri amici morti, scacciamo gli orrori dei loro corpi dilaniati dalle bombe e straziati dalle pallottole. Mentre ti scrivo tremo come una foglia, per il freddo glaciale che mi gela il sangue nelle vene, per il terrore che leggo negli occhi di chi mi sta a fianco.


Ti racconto un fatto. Non lo faccio con l’intento di ferirti, mia cara Marta, ma perché fa male dentro e devo liberarlo.

Accadde giorni addietro. Non saprei dire quanti, il conto del tempo in trincea non segue regole.

Durante un’incursione mi ritrovai isolato su di un rilievo composto da pietrisco ghiaioso e circondato da rocce aguzze. Superato un crinale mi sentii come di fronte a uno specchio. Al mio cospetto, pochi metri da me, stava un ragazzo della mia stessa età. Ci differenziava il colore dell’uniforme e nient’altro. Alzammo i fucili all’unisono, speculari. Sentivo le braccia tremanti e gli occhi sbarrati. Non avevo mai ucciso nessuno prima di allora. I miei colpi, sparati a casaccio e ben nascosto in trincea, erano soliti scheggiare le pietre e piantarsi nel legno. Non fui capace di far fuoco su quel soldato. Il dito sul grilletto immobilizzato dalla paura. Così abbassai l’arma e chiusi gli occhi. Scelsi di morire al posto del nemico perché lessi in lui la mia stessa voglia di vivere e il mio stesso terrore. E aspettai il colpo.

Attesi secondi interminabili prima di riaprire gli occhi. Il soldato stava a pochi passi da me, il fucile abbandonato contro un masso a noi vicino. Parlava in tedesco e io non capii quello che diceva, annuiva con la testa, gli occhi pesti dalle lacrime. Sorrideva sollevato, grato della mia decisione e in qualche modo orgoglioso di averla presa lui stesso risparmiandomi a sua volta. Infine, mi abbracciò brevemente.

“Aufwiedersehen!” mi salutò rimbracciando il fucile.

Lo seguii con lo sguardo inerpicarsi sul declivio, il passo fermo e stabile quanto quello di un camoscio. Lo vidi crollare poco dopo sulla cresta, crivellato di colpi. Il corpo senza vita rovinò lungo il canalone e si fermò su di un cumulo di neve residuo. Vidi il sangue sgorgare dalle ferite del suo petto e disegnare venature rossastre sul ghiaccio. Come spugna la neve assorbì l’anima di quel giovane soldato che ho voluto vivesse come me.

Di notte ho gli incubi. Non sono il solo. In trincea capita sovente di sentire il grido di uno di noi, gli occhi sbarrati nel buio e gli arti che tremano, gocce di sudore gelido che colano lungo la schiena a dispetto del freddo. Il pensiero di aver potuto essere io quel morto sulla neve mi opprime e non mi abbandona, le forze vengono meno così come il coraggio. Mi sforzo di aggrapparmi alla fede, cerco coi polpastrelli il crocifisso che tengo attorno al collo, lo stringo e invoco Dio, ma lui è lontano e non risponde, lui è altrove rispetto a noi, guarda in una direzione diversa, oltre le montagne dove non c’è dolore e le genti vivono in pace, via dagli uomini che si uccidono l’un l’altro, asserragliati dietro a sacchi di terra e arroccati tra le rocce come tante nere cornacchie di sventura.

Attraverso le feritoie riesco a scorgere il nemico. Barlumi di luce dai pertugi sul Lagazuoi, il Sass de Stria, il Setsass e il Col di Lana. Mi domando se siano torce per altri come me, che scrivono ai propri cari e si rincuorano nel pensiero di chi li aspetta a casa.

Mi manchi ogni istante e ti penso ogni secondo. Il domani non mi è dato saperlo, mi rifugio nella consapevolezza che questa guerra non durerà per sempre e che tornerò ad abbracciarti. Spero soltanto che quando il momento giungerà, sarò capace di svuotarmi degli orrori vissuti e tornare in pace.

Per sempre tuo, Saverio.










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