Come esercizio di scrittura ho chiesto ai miei figli di pronunciare due parole ciascuno. Con l'ausilio delle stesse avrei imbastito un racconto da proporre nel blog.
Le parole sono state:
- gigante
- leone
- nome
- animale
Il risultato è il seguente:
Sono ore che non mi danno tregua. Dalle inferriate di questo stanzino del commissariato non filtra più alcuna luce naturale. Il cielo sereno che mi copriva all’ingresso si è smorzato in una notte afosa e silenziosa. Solo un lampione in strada fa filtrare un flebile fascio biancastro e intermittente.
L’ispettore se ne sta seduto con le gambe stese sul tavolo degli interrogatori e con le suole lerce delle scarpe stuzzica le mie mani incatenate alle manette. Si accende l’ennesima sigaretta, la decima, l’undicesima, la dodicesima, chi le conta più nel sopportare questa infinita tempesta di domande. Il mozzicone precedente, così come gli altri, non lo spegne nel posacenere che ha di fianco, preferisce premerlo tra pollice e indice, prendere la mira e tirarmelo in faccia senza complimenti. Alcuni di questi hanno centrato il bersaglio, hanno colpito come punture sfavillandomi contro prima di rimbalzare a terra o, come quest’ultimo, sul cavallo dei miei pantaloni. L’ispettore ride di gusto, sguaiato e fragoroso, mentre mi dimeno per togliermi di dosso la cicca, e devo farlo inarcando la schiena e agitando le gambe perché, così come i polsi, anche le caviglie sono bloccate al suolo da corti catenacci.
Alle sue spalle, seduto in un angolo, il suo secondo prende appunti su un block notes tascabile. Che poi lo faccia veramente o si limiti a far la sceneggiata non mi è dato saperlo. Mi scruta con occhi di ghiaccio, sottili e inespressivi. La bocca è un taglio netto sopra il mento, un segmento immobile e inquietante. Qui non si tratta di poliziotto buono e poliziotto cattivo, questo ormai mi è chiaro. Di buoni oggi qui non ce ne sono.
L’ispettore si fa serio in un istante, serra la mascella furioso e si alza di scatto. La sedia cade sul pavimento, volutamente spinta con un colpo delle gambe. Il tonfo metallico riecheggia nello stanzino e mi penetra fin dentro alle ossa, che involontarie tremano e mi fanno accapponare la pelle. Mantengo il suo sguardo come gesto di sfida, mentre colpisce il tavolo con le nocche e si erge minaccioso in tutta la sua stazza. Sembra un gigante quando il suo torace ampio copre il neon sulla parete facendomi ombra e oscurando il suo viso. Solo la sclera intorno alle pupille dilatate e i denti serrati restano bianchi e vistosi in quella posa volta a farmi crollare, ma io non cedo. Respiro lentamente costringendomi a mantenere il controllo, obbligando ogni cellula del mio corpo a sostenere il momento, a resistere oltre ogni limite.
Alle spalle dell’ispettore, il secondo si alza e posa il block notes sul tavolo. Si volta salendo coi piedi sulla sua sedia nell’angolo e, così come nei film di spionaggio, allunga la mano per spegnere la telecamera che pende dal soffitto. Quando il puntino rosso sull’apparecchio svanisce, sul suo volto imperturbabile si profila un sorriso malvagio. Io non cedo, deciso a dare loro nessuna soddisfazione e alcuna risposta.
«Dammi quel nome,» intima l’ispettore ancora una volta. «Non te lo chiederò di nuovo.»
L’osservo impassibile e scuoto la testa inarcando un sopracciglio. Il suo sbuffare spazientito si trasforma in un urlo rabbioso e incontrollato. Lo vedo agitarsi attorno al tavolo come un leone in gabbia, sento il suo fiato sul collo, puzza di sigaretta, di whisky, di salsa al curry e cipolla fritta.
«L’hai voluto tu», mi sussurra all’orecchio.
Il secondo mi si avvicina baldanzoso, la smorfia che gli si era materializzata sulla bocca si è trasformata in qualcosa diverso, di ferino quasi, come se un’improvvisa ebbrezza delirante e allucinata avesse preso il sopravvento. I suoi occhi, prima sottili e pacati, sono ora palle scintillanti e scattanti. Le palpebre si serrano a ripetizione...mettono a fuoco l’obiettivo, scelgono da che parte cominciare.
«Il protocollo» mormora l’ispettore. «Ricorda il protocollo.»
Ma il secondo è come in trance, si muove come un animale feroce, lentamente e silenzioso, teatralmente e tetramente invasato.
«Al diavolo il protocollo,» sancisce scrocchiandosi le nocche delle dita chiuse a pugno.
L’ispettore afferra il tavolo e lo trascina all’indietro, creando una voragine tra questo e la sedia dove sono legato. Il secondo mi si avvicina e comincia a colpirmi al viso. Sento il naso rompersi all’istante e un fiotto di sangue colarmi tra le labbra, finendomi in bocca col suo inconfondibile sapore ferroso. Seguono la mandibola e l’arcata sopraccigliare, un dente penzola dall’incavo di una gengiva. Ogni singolo pugno ormai, genera una specie di scossa elettrica che si diffonde lungo il mio corpo come una saetta. Perdo l’orientamento, la stanza vortica dolorosamente, poi sopraggiunge il nero, vedo buio, vedo rosso, non vedo più niente. Sto perdendo i sensi nella mia vittoria silenziosa, custodendo il segreto all’interno del mio cuore forte e tenace, di un carapace martoriato dalla violenza di una legge corrotta e codarda.
Non è da me, riesco a pensare prima di spegnermi... Non è da me che scoprirete chi vi ha traditi. Ci rivedremo in cella e avrò la mia vendetta!
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