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Crepa serpente, crepa!!!

Aggiornamento: 19 nov 2022

Si dice che poco prima di morire, in quel brevissimo lasso di tempo che intercorre tra l’ultimo battito di cuore e il decesso cerebrale, l’intera vita ci passi davanti come un epilettico fotogramma ricco di dettagli, eventi significativi e ricordi importanti.

Non sarà così per me. La successione di ciò che sono stato e di colui che sono diventato, la sfilata di coloro che amo e che odio, di quelli che in qualche misura hanno valso uno spazio nel mio album recondito e selettivo, la processione attraverso i luoghi della mia infanzia, dell’adolescenza e della definitiva maturazione, può avvenire con tutta calma. La mia discesa negli inferi, perché sarà tra le fiamme la mia destinazione finale, sarà lenta a sufficienza da permettermi di sfogliare le pagine della mia vita per qualche ora almeno e di soppesare per un’ultima volta, irrimediabilmente, tutti i miei sbagli.

Due piccolissimi buchetti poco sopra il calcagno saranno la causa del mio trapasso. Il carnefice mi ha preceduto dall’altra parte, colpito a morte dal sasso che ora tengo tra le cosce come una reliquia da custodire a qualunque costo, punteggiato di sangue vischioso e interiora spalmate.

Non sono stato accorto. Non lo sono mai. Il fruscio del suo corpo squamoso l’ho avvertito, impossibile non sentirlo avvolto dal mutismo di questo luogo selvaggio e quieto, ma ho ipotizzato fosse causato da una più comune lucertola, o dai saltelli di qualche uccello canoro a caccia di insetti. Una vipera non l’avevo presa in considerazione, esclusa categoricamente dallo sciame che componeva il bestiario che credevo di incontrare durante il cammino.



Quale impenitente sottofondo alle riflessioni la voce di mia madre si diffonde come una eco costante. Ripete le raccomandazioni di sempre, quelle di non arrischiarmi in certi luoghi del tutto solo, di non fidarmi unicamente di un’esperienza idealista e della passione viscerale verso il creato, ma di usare la testa, di soppesare i se e di dare ascolto ai ma.

Non l’ho fatto. E questo è il risultato.

Resto io, unicamente io. Mi arrendo senza combattere. Quando il serpente mi ha morso ho sentito una scossa attraversarmi il corpo come elettricità viva e cessata la mia vendetta ho percepito il veleno insinuarsi dentro di me, un fluido caldo, venefico, letale che si spargeva inesorabile, che si mesceva alle mie cellule uccidendole una per una. Ne conosco abbastanza da sapere che muovermi e reagire, farmi forza e incamminarmi verso valle, non farebbe altro che velocizzare un processo ineluttabile. Da qui la scelta di stare esattamente dove sto, supino su questo pianoro con lo sguardo sperso verso il cielo a contare gli aerei che passano e ad asciugarmi le lacrime che non riesco a contenere.

Nel vortice dei miei pensieri altalenanti non posso che pensare di aver trovato un luogo splendido dove tirare le cuoia, circondato da maestosi abeti che ondeggiano sospinti dal vento con moto quasi impercettibile, dal fitto sottobosco rinfrescato e umido che i primi caldi hanno tinto di un verde cangiante e io che vengo cullato verso il baratro dal gorgoglio di un ruscello che zampilla tra le rocce.

Con me c’è Michele. Lo vedo a pochi passi da me, accucciato su un masso a ridosso del sentiero. Non dice nulla, mi fissa in rispettoso e religioso silenzio. Il sorriso che ricordo sul viso, labbra tirate e appena dischiuse, come se avesse sempre qualcosa da dire, ma se la rimangiasse ancor prima di farla fuori, il ciuffo alto sulla testa, le mani intrecciate su un ginocchio, il cuore grande quanto il mondo.

Michele era mio fratello. Morì tra le lamiere della sua auto durante un assurdo tamponamento in autostrada, lasciandomi solo. Non era soltanto il mio gemello, era la parte migliore di me, quello che sarei voluto essere, ma che non sono stato, come se in quegli otto mesi di convivenza uterina che ha preceduto quella di vita, ci fossimo giocati a carte le virtù e i difetti e che io abbia perso ogni mano prendendo solo il peggio.

E’ stato un padre, quando quello vero salì su un batiscafo per non farsi più vedere, senza lasciare la minima traccia. E’ stato madre, quando mamma è uscita di testa e iniziò a scordarsi le cose, a parlare coi piccioni e a scialacquare ogni risparmio una cartomante dopo l’altra. E’ stato eroico, quando si è sobbarcato di entrambi noi, proteggendo me e crescendo lui, chiocciando la mia apatica esistenza ponendo le fondamenta di una stabilità di cui avremmo fruito entrambi. Mi sembra ancora di vederlo sempre indaffarato, tipografo del quotidiano locale di notte e imbianchino al mattino, a cucinare una pasta di fretta e sbiancarsi con una breve doccia prima di rimettersi in moto e preoccuparsi di me. In antitesi io, troppo orgoglioso e troppo scemo per accettare un impiego qualsiasi, troppo pigro per fare una cosa a caso quando Michele poteva riposare, troppo incazzato con papà per gradire gli sforzi del mio fratello maggiore, quasi che quegli undici minuti in sala parto, che hanno separato le nostre nascite, fossero una distanza incolmabile.

Amore e odio, esattamente allora come adesso che se ne sta lì a guardarmi morire. Amore perché non posso ignorare quel che è stato. Odio per il soffocarmi con la sua presenza opprimente, per il senso vertiginoso che avevo di sbagliare ogni passo, per avermi posto a confronto di una divinità tracimante bontà e saggezza, per avermi abbandonato prima ancora che avessi imparato a stare al mondo e per deridermi ora, dall’alto di quel masso da dove mi scruta fino a perforarmi.

Chiudo gli occhi per cacciarlo dai miei pensieri, ma è pressoché impossibile. La sua aurea è collegata alla mia, nulla di più facile che la vipera fosse proprio lui, un messo del demonio chiamato a convocarmi. La giustizia ultraterrena che si fa carico di ovviare a un errore commesso, quando quel giorno in autostrada, stritolato in quell’incidente senza senso, avessero colpito il fratello sbagliato.

Mi prende un colpo quando sento qualcosa toccarmi. Riapro gli occhi e mi trovo davanti un escursionista come me, zaino in spalla e viso arrossato.

«Ehilà, va tutto bene?»

«Oh Dio, meno male. Sono stato morso da una vipera, il cellulare è scarico, il veleno è già in circolo, non ho via di scampo, la prego mi aiuti.»

L’uomo mi osserva piegando la testa di lato, strizza un occhio e piega la bocca in un gesto d’incertezza. Con un cenno del mento indica il corpo del serpente attorcigliato al mio fianco.

«E’ quella la vipera?»

Annuisco.

Al che accade qualcosa di totalmente folle, costui si mette a ridere a crepapelle, talmente forte che credo possa strozzarsi da un momento all’altro e fino al punto da battersi ripetutamente il ginocchio con il palmo della mano. Inspiegabilmente divertito nei confronti della mia morte.

«Ma non è una vipera, imbecille. E’ un carbonazzo. Per morire dovrai aspettare un altro giorno.»




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