Non lo conoscevo bene, non eravamo intimi né tanto meno amici. Sapevo chi era perché in un paese di montagna, lontani dalla frenesia malsana delle città e fortunatamente ancora invisibili al turismo di massa, i volti di ognuno sono familiari e accomodanti, diapositive di un porto sicuro, sinonimo di casa e di appartenenza.
Taciturno. L’aggettivo più calzante. Ero solito incontrarlo in osteria, sempre allo stesso tavolo, seduto su di una sedia levigata e consunta, lo sguardo sperso in un’ombra di Merlot, le braccia nervose piegate sotto il mento e le mani screpolate intrecciate tra di loro.
Ricordo la sua voce… come dimenticarla: antica, tanto profonda da convincermi che lui non fosse mai dove lo vedevo io, ma che si trovasse altrove, in una spelonca millenaria sovrastata da tonnellate e tonnellate di roccia in qualche angolo sperduto tra le sue amate montagne, e che da lì provenisse ciò che aveva da dire, che le sue parole nascessero dalla terra e tra il pietrame, che attraversassero i crinali e le curve della valle fino a raggiungerci infine attorno al fuoco, dove noi, adolescenti esasperati e irrequieti, aspettavamo le sue storie.
Diceva di un casolare. Lo nominava in ogni racconto. Affermava si trovasse sotto le guglie più impervie del monte Lerc, celato alla vista da rigogliosi larici secolari e folti abeti bianchi. Era una baita di modeste dimensioni, formata da spessi tronchi anneriti, con due graziose finestrelle sui lati e una rozza legnaia sul retro. Poco distante c’era una greppia per il foraggio. L’uomo si preoccupava puntualmente che ce ne fosse sempre un po’ per le bestie selvatiche di passaggio. Un timido ruscello vi scorreva di fianco, zampillando da un faglia intrisa di muschio che riempiva una piccola pozza naturale dove i caprioli più impavidi si fermavano per abbeverarsi, cosicché lui li osservasse silenzioso e immobile, empaticamente in simbiosi e in pace. Come fosse la baita all’interno, nessuno lo sa. Provammo più e più volte a incamminarci sui declivi, ma non la trovammo mai, tant’è che su di essa si sparsero dicerie e nacquero leggende. I più pragmatici di noi, o i meno romantici a seconda del punto di vista, misero addirittura in dubbio la sua reale esistenza, ma non io che agognavo di arrivarvi per davvero prima o poi, di dar forma tangibile a un luogo abbozzato nelle storie e definito dai miei sogni.
Ricordo con affetto le serate invernali rintanati in osteria, le attendevo perfino. Me ne stavo in disparte assieme ai miei amici, troppo piccoli per stare con i grandi, troppo cresciuti per filare a letto dopo cena. I nostri padri, impegnati a discorrere di bestie e sementi, di tanto in tanto ci compravano la spuma, che noi fingevamo fosse vino frizzante e dolce bevendolo con puerile spavalderia. Di sottecchi, a turno per non farci scoprire, tenevamo lo sguardo sull’uomo dei monti. Aspettavamo impazienti che le mani di briscola finissero e il merlot gli sciogliesse la lingua.
Quando si sentiva pronto a cominciare mio padre si voltava verso il tavolo dove noi ragazzini sedevamo. Faceva un cenno di assenso col capo e sorrideva compiaciuto. Ci si raccoglieva quindi attorno al focolare in semicerchio e lo si osservava silenziosi. Teneva lo sguardo tra le fiamme per raccogliere i pensieri, il legno crepitava riecheggiando tutto intorno, sui nostri visi tremolavano le ombre sfuggenti formate dal fuoco.
Tra tutte le vicende di cui ci rese partecipe in quegli anni quella a cui sono più legato si svolse in una notte come questa. Nevica! Sono imbambolato al davanzale a seguire il dondolio dei fiocchi con una tazza di tè bollente tra le mani, una candela accesa sul comò e la mente non può che tornare a quel racconto.
Disse di non poter immaginarsi nulla di più bello che quel momento. La neve stava coprendo ogni cosa, zittiva la vita e silenziava la valle. I suoi piedi faticavano a farsi strada, profondando fino a metà polpaccio. Nuvolette di vapore caldo gli si disegnavano dalla bocca, mentre arrancava tra i rami piegati dal peso del manto nevoso. I fiocchi che cadevano sembravano lucciole di giacchio, emettevano una fiabesca luminescenza che rischiarava fiocamente la notte. Gli alberi omaggiavano l’uomo come una schiera di soldati anchilosati e austeri. Non un suono al di fuori dei suoi passi, solo dei tonfi improvvisi di tanto in tanto, quando la neve veniva rilasciata dai rami esausti che schizzavano finalmente liberi.
Raggiunse la baita anelando il calore delle stufa e un cambio di vestiti. Prima però avrebbe dovuto liberare la porta dalla neve che ne ostruiva l’apertura. S’inginocchiò e pulì l’uscio raschiando istintivamente con le mani. Quando finì le dita erano inerti pezzi di ghiaccio, insensibili e immobili. Si colpì il corpo con i polpastrelli bluastri e doloranti, ma senza successo. Dalla tasca del borsello riuscì a estrarre la grossa chiave di ferro e l’infilò nella serratura. Le mani intirizzite e svuotate della forza non facevano presa. Scivolavano sul metallo gelido incapaci di far scattare l’ingranaggio. Non seppe dire quanto tempo tentò di far leva sulla porta prima di perdere la volontà. Il freddo diventò insostenibile, lo sconforto prese il sopravvento, l’uomo si accasciò a terra, seduto tra la neve denudata del suo candido fascino e con la schiena poggiata alla baita sigillata. Dalla punta delle dita il gelo si propagò come una malattia, scorrendo lentamente tra le vene intorpidite e sulla pelle coriacea.
Chiuse gli occhi, infastidito dai fiocchi incessanti che gli graffiavano le retine e gli impedivano di vedere. Vuoto, si rannicchiò il più possibile per custodire il calore. Sentì le palpebre pesanti e la stanchezza sconfiggerlo, presagio di un sonno prematuro e maligno. Tentò di scuotersi, di reagire, di sollevarsi. Poi un flebile tepore gli sfiorò il viso, portando con sé un odore silvano, ferino, pungente. Aprì gli occhi sul muso umidiccio di un maestoso cervo maschio, dai palchi immensi, folto pelo lanuginoso e due grandi occhi color caramello. L’animale pungolò l’uomo con gli zoccoli e bramì per destarlo. Infine gli si sdraiò di fianco, con le narici fumanti di fiato caldo e in attesa di intiepidirlo col proprio corpo.
Rinfrancato estrasse le mani dalle vesti per infilarle sulla pelliccia del cervo e di contro l’animale vi stese sopra il suo collo possente. La circolazione sanguigna nelle vene dell’uomo finì il suo letargo come un rigagnolo in primavera. Provò un dolore salvifico che si sparse per tutto il suo corpo. Il cervo l’osservava mormorando un verso sottile e rispettoso, un suono che nei suoi racconti definì come la vera voce del bosco, come una preghiera mistica e sacra.
Alzatosi l’uomo riuscì infine a far scattare la serratura. La porta si aprì con un cigolio tanto forte da sembrare un grido. Il cervo sbuffò un ultimo saluto prima di svanire tra gli abeti oltre il casolare. All’uomo non restò che accendere il fuoco e sospirare di sollievo, dormire il miglior sonno della propria vita e scendere in paese, per farci spalancare le bocche e sperare in un’altra storia come questa.
…..…e adesso chi lo mangia tutto il cervo che ho nel congelatore..…bellissima come sempre..…