Eccomi di nuovo. D’altronde come ogni giorno in questa stagione. E’ quello che sono e quello che faccio. Incomprensibile ai più, un’opera d’arte in carne e ossa, trucco e costumi variopinti che mi piace fabbricare da me, alternare, mescolare e comporre. Sono un’occhiata fugace, il più delle volte, un sorriso strappato ai curiosi, il dito di un bambino che indica e che pronuncia una prolungata O di stupore.
Di sera pizze. E’ questo il mio impiego principale, infarinarmi da capo a piedi e giostrare gli ingredienti con le mani indefesse, perché anche la pizza, spesso ce lo scordiamo, è un’opera d’arte a pieno titolo.
Al mattino mi alzo presto. Non sono uno che poltrisce in un dormiveglia inconcludente. Trovo di che impegnarmi con lavoretti a chiamata, un salone da tinteggiare, una cantina da sgomberare, una semplice riparazione di carpenteria. Non importa quale sia la commessa, io mi so arrangiare. Non ho qualifiche da dichiarare, ma posseggo attrezzi di tutti i tipi, l’esperienza del fare e la lena dei giusti.
Al mio teatrino penso nei buchi di tempo che risparmio. Sono quelli i momenti che danno vita ai personaggi che ho in mente e, assieme a loro, alle basilari ambientazioni che posso imbastire e portarmi appresso.
Or ora, per onor di cronaca, a far da scena ci sono un vessillo stilizzato su un tessuto indurito con la colla vinilica, appesa a un’asta metallica e impiantata in un piedistallo circolare e un archibugio intagliato nel legno di tiglio, tinteggiato dal sottoscritto e ricoperto da vernice anticante.
Il resto dello show sono io, un moschettiere steampunk il cui costume attinge dal rinascimento e dalle fabbriche della Londra industriale, stivali di pelle nera, pantaloni di velluto, una camicia di pizzo bianca, un panciotto dalla trama composta da una moltitudine di ingranaggi concatenati e un cappotto di pelle tagliato da una bandoliera di cuoio. A completare l’opera, oltre al trucco dorato che ricopre ogni pertugio del mio corpo visibile, la parrucca nera e il pizzetto accuratamente appiccicato ai contorni della bocca, un cappello a cilindro adorno di una bussola d’ottone e, dulcis in fundo, i miei immancabili occhiali d’aviatore calzati sugli occhi, la mia personalissima e imprescindibile finestra sul mondo.
Che si alzi il sipario! Ho appoggiato il piattino. Una posa facile per cominciare. Il trucco sta nel bilanciare il peso con cura, gravare il meno possibile su dei muscoli specifici, specie i lombari. Respiri profondi sono assolutamente necessari, il cuore ha bisogno di rallentare il proprio battito e di uniformarsi al resto, come un tutt’uno che smette di esistere per ciò che è per tramutarsi inesorabilmente in un corpo inerme, inviolabile e imperturbabile.
Mi restano gli occhi. Li tengo puntati sui i turisti che mi scrutano e mi oltrepassano. Pazientemente attendo che uno di essi abbia il buon cuore, o sufficiente curiosità, da graziarmi di una moneta e ammirarmi mentre prendo vita. La rigidità dei miei arti si scuote, il flusso sanguigno è tangibile. Potrà sembrarvi strano, ma vi assicuro che lo percepisco rimettersi a fluirmi nelle vene, è un tenue formicolio che mi da sollievo e gratificazione. Pochi secondi soltanto prima di una nuova posa. E un doveroso inchino al gentiluomo, o alla gentildonna, che mi hanno dato il La.
Chi fatico a digerire sono quegli esseri che mi si piazzano a un palmo di naso con l’antipatica intenzione di infastidirmi e mettermi alla prova. Sono la più grande spina nel fianco del mio spettacolo, un nugolo di maleducati e sobillatori che si divertono con poco.
Attorno a me si è generato un nutrito gruppo di persone. Sono per lo più famiglie con bambini piccoli e innocenti o coppie di innamorati alle prime armi, dalle dita intrecciate e le pupille luccicanti. Al riparo dietro ai miei occhiali dalle lenti scure, osservo il mio pubblico passandoli a rassegna uno per uno. La maggior parte di loro non dura che pochi secondi, si assicura che il mio immobilismo sia perfetto, non fingono neppure di mettere mano al portafoglio e se ne vanno senza nulla più che una scrollata di spalle. Il piattino piange, non è che pochi monete. Sono sette euro e trenta centesimi. Contarli è un’inezia, fa parte dello sconforto che mi assale la sera quando ripenso alle ore impiegate a prepararmi e a quelle occorse per ritornare nei miei panni di pizzaiolo solitario. Viene da domandarsi perché lo faccia, quale forza invisibile mi spinga a ripartire ogni volta con nuova verve e rinnovata fantasia. La risposta è semplice, così come non si chiede al gallo del suo canto mattutino, allo stercorario della sua pallina di cacca o all’ape quali corolle sceglie per il suo nettare, è l’istinto, puro e semplice, DNA e anima, che non si smarrisce mai.
Un bimbetto dalle gambe secche e le lentiggini a punteggiargli le guance mi osserva infilandosi un dito nel naso. Il gesto mi ha incuriosito, (c’è dello psicotico nel interessarsi alle schifezze altrui), tanto che non riesco a togliergli gli occhi di dosso. E tra l’altro impegnare lo sguardo su un soggetto ben preciso aiuta a mantenere postura e concentrazione. Fatto sta che il suo dito si torce infaticabile nella narice, si piega a mo’ di uncino e ne fuoriesce una caccola multicolore. Se inizialmente ho il timore che il bimbo possa osare di pulirsi sui miei vestiti, il tutto termina con un disgustoso assaggio da parte sua e un invisibile sospiro di sollievo da parte mia.
Sto per chiudere baracca e burattini con il sole ha passato la linea dell’orizzonte e il vento serale che s’incunea tra i caseggiati qui attorno, fresco e pungente, quando la mia attenzione viene catturata da un crocchio di persone ben vestite che sopraggiunge da un vicolo poco distante. L’osservo con la coda dell’occhio, spingendomi in là il più possibile con la mia vista periferica. Capogruppo è un omuncolo in doppiopetto, con la pancia adiposa che gli dondola sulla cintura e una risata fragorosa che sembra nascere da una caverna. Attorno a lui svolazzano ragazze in tacchi a spillo e abiti succinti i cui risolini sibilanti cozzano con la trombetta dell’uomo.
Mi si piazzano davanti mettendo in mostra il loro teatrino degli orrori, composto da una vita ovattata dal dio denaro e sostenuta dall’impalcatura di amori civettuoli. Si siede l’uomo, su di una panchina a qualche metro dal mio palco. Consegna una banconota da cento a una delle ragazze e dopo averla schiaffeggiata sulla coscia, un gesto che ho considerato odiosamente sessista, le indica il mio piattino.
«Sono tuoi, se starai fermo finché non mi sarò stufato di guardati,» esclama costui.
Il cuore accelera, il che è un pessimo inizio per vincere la disputa, ma l’uomo mi sta sui nervi tanto che vorrei afferrare la mia bandiera, svitarla dal piedistallo e piantagliela nel ventre. Però cento Euro sarebbero una bella ricompensa. Un’inezia per il pancione che ho di fronte quanto un tesoro per il sottoscritto. Così resto immobile. Solo gli occhi a danzare sui volti impiastricciati delle ragazze divertite. Conto i secondi con la mente, è uno stratagemma anch’esso per mantenere l’attenzione sul mio ruolo.
Passata un’ora almeno, con l’apertura della pizzeria che si fa inesorabilmente più vicina, siamo ancora in ballo. Per gli sfidanti sono stati minuti di chiacchierii e sigarette, di ancheggiamenti provocanti e lusinghe esagerate, di palpeggiamenti e risate, risate, risate... Poi di punto in bianco l’ometto si alza dalla panchina, le braccia avvinghiate alla vita di due delle ragazze, un sottile cenno del capo nella mia direzione e via per sempre.
«Bravo,» si limita a dire. «Bravo davvero.»
Aspetto che il gruppetto si sia allontanato abbastanza prima di uscire dal ruolo, sia mai che si voltino e vedano affrettarmi avidamente sulla banconota e i pochi spicci nel piattino. Però quando scelgo di svestire i panni della statua la magia non riesce. Il sangue resta inerme nelle mie vene, nessun formicolio a svegliare le mie membra, niente più vigore, niente più volontà. Gli occhi si paralizzano sulla notte calante e io sono in pace, beatamente in pace, pronto ad accettare che il mio sipario non verrà mai più calato.
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