Bolzano piange. Piange così come ogni notte dal giorno del ricalcolo e da quel che ne è seguito. Osservo disgustato i grattacieli del Consorzio dal tavolino di quest’open bar sugli attici del centro, uno dei pochi locali dove ancora vigono la legge marziale e l’immunità diplomatica, e ripercorro l’incursione nella testa per capire dove cazzo ho sbagliato. O dove siamo stati fottuti. E, soprattutto, chi ci ha traditi.
I singhiozzi di Nadia sono lame nelle orecchie e fanno più male del foro di pistola che ho sul braccio e che ho fasciato alla buona. Al barista basta un cenno del mento, ci porta del gulasch e una bottiglia di grappa annacquata. Non fa domande, nessuno ne fa, così come nessuno si azzarda a guardarci.
«Dovresti mangiare,» commento senza convinzione, ma già so che è una causa persa.
Nadia non alza gli occhi dalla scodella, il cucchiaio giace sul tovagliolo, le sue mani abbandonate sulle gambe non smettono di tremare e le lacrime incontrollate cadono sul gulasch come gocce di pioggia in una pozza di fango. Scosto lo sguardo dal suo viso puntellato degli schizzi di sangue ormai secchi e lo punto sui palazzi che svettano dove un tempo c’era il quartiere di Rencio. In passato si vedeva il Catinaccio all’orizzonte, e altri scorci di montagne famose su tutta la Terra, ma dopo la devastazione avvenuta nella notte dei lamenti non ne restano che briciole e un deserto di pietre affilate come rasoi.
Le luci della Suite oltre il fiume sono accese. Ne vedo la terrazza brulicare di guardie armate, i sensori neurali intermittenti a indicarne la presenza, sono lucciole senza scrupoli che per poco non ci hanno fatto fuori. Il quartier generale dei Daheim è in completa fibrillazione dopo il nostro tentativo andato a vuoto e d’istinto strizzo la mascella rabbioso, i denti digrignano, maledico la talpa che giuro di scovare a ogni costo.
Yuri è andato, crivellato di colpi alle spalle mentre cercavamo di fuggire a gambe levate. Ho trascinato Nadia con tutte le mie forze, impedendole di fermarsi a soccorrerlo. Chissà perché l’aver salvato lei mi sembra un’ingiustizia. Si vive e si muore insieme, ci ripetevamo... Invece noi respiriamo ancora.
Il barista si avvicina proprio mentre mi sto facendo coraggio allungando la mano su quella di Nadia. Tanto basta a farmi ritrarre. Negli occhi della mia compagna leggo delusione e repulsione. Mi dà la colpa per la morte del fratello e non posso biasimarla.
Il barista afferra la bottiglia di grappa dal centro del tavolo e la passa con un canovaccio. Fingendosi indaffarato e muovendo impercettibilmente le labbra ci sussurra quello che speravamo di non udire:
«Sono qui. Sono dappertutto. Dovete andare via. Subito!»
Indica col gomito la porta del bagno di fianco al bancone. Nadia mi fissa con gli occhi pesti e arrossati; sono certo non riuscirò mai più a dimenticare quel suo sguardo. Annuisco assicurandomi che la pistola sia al suo posto, carica e col colpo in canna, le sue dita stringono già l’impugnatura del taser.
Ci alziamo lentamente e seguiamo il barista verso il bagno. Da quel momento in poi tutto sembra accadere al rallentatore. La porta del locale viene divelta con un colpo di M112 e schegge infuocate schizzano in ogni direzione. Gli avventori si rintanano sotto ai tavoli gridando come impazziti. Appare un manipolo di Wolfers dalla nube di detriti che si è formata. Riconoscerei ovunque i loro elmetti. I visori notturni sezionano il salone come tante spade laser, cercano i nostri codici scansionando ogni essere umano presente. Il barista non indugia, ci spinge dietro al bancone e scosta il tappeto. C’è una botola nel pavimento, ben celata tra le nervature del legno. Senza porci domande ci infiliamo all’interno.
«Strisciate fino in fondo. Non fate rumore,» e ci sorride nel sollevarsi la manica sulla spalla per mostrarci il marchio.
Vorrei ringraziarlo, ma non ne ho il tempo. La botola si sigilla sulle nostre teste e piombiamo nell’oscurità del cunicolo. Odiamo il barista litigare coi guardiani, li minaccia di convocare l’ambasciata, ricorda loro di aver violato uno di quei luoghi conosciuti come «baite bianche» e cui le leggi di Vienna, di Genova, di Lispia e delle altre capitali dei regni liberi non hanno diritto alcuno.
Poi uno sparo a spegnere la sua voce inferocita. Grida e confusione, altri spari e altre uccisioni. Faccio appena in tempo a tappare la bocca di Nadia con la mano, le impedisco di urlare, spengo i suoi singhiozzi di dolore sul nascere. Ascoltiamo i guardiani interrogare chi ancora è in vita, il che mi terrorizza. Le lacrime colpevoli non risparmiano neppure me, sono causa di un’altra carneficina che si sta svolgendo poche spanne sopra la mia testa.
Afferro la mano di Nadia, ne ho coraggio ora, c’è in ballo ben più di un sentimento, ne va della nostra stessa vita. Scivoliamo il più velocemente possibile attraverso il cunicolo che si snoda chissà dove. Le voci dalla baita bianca sia fanno più lontane, isolate dal legno e dai muri. Proseguiamo inalando il fetido odore di muffa e di feci che ci avvolge, tratteniamo i sussulti nel incrociare la strada coi grossi ratti che infestano i bassifondi dei portici, l’antichi fulcro economico di Bolzano ridotto oggi al fetido sotterraneo che diede i natali a entrambi. Stiamo scendendo, stiamo tornando a casa. Il liquame che scorre in un rigagnolo è urina pungente, vorrei tapparmi il naso, posso solo sollevare la sciarpa fino sopra gli occhi che bruciano come se mi avessero spremuto una cipolla nell’iride, ma la fiducia torna a bussare ora, una flebile fiammella che irraggia la speranza di salvarla anche stavolta. Alla quale segue la promessa di non portarla mai più con me, fosse l’ultima cosa che faccio.
Scardino la grata facendo forza con le gambe e calciando il metallo con gli scarponi. Dopo pochi colpi questa cade facendo un baccano infernale scontratasi col pavimento. Trattengo il fiato e sbuco con la testa. Sotto di noi, illuminati dai fari gialli che si snodano sul soffitto, c’è un nugolo di bambini intenti a giocare coi rifiuti. Ci osservano abbracciandosi l’un l’altro, intimoriti. Mentre ci tengono d’occhio il più piccolo inizia a correre spedito dai più grandi a chiamare aiuto. Sorridono quando mi tolgo la sciarpa dal viso, esultano quando a fare capolino è Nadia.
Una volta scesi sento per la prima volta il cuore rallentare. La ferita al braccio ha ripreso a sanguinare copiosamente mentre attraversavamo il cunicolo, sento freddo per la prima volta dopo tanto tempo. Nadia mi dà la mano. Non dice nulla, sarebbero parole a vuoto, parole di cui ci si potrebbe pentire un giorno e io le sono grato per il silenzio che mi ha offerto come tregua.
Percorriamo i vecchi portici sotto gli occhi dei suoi miseri abitanti. I negozi di quel tempo benefico di cui mi raccontava nonno sono bugigattoli per intere famiglie di disperati. Questi ci scrutano per trovare le risposte che agognano, ma che non siamo stati in grado di portargli. Neppure stavolta. Ma la ribellione è una brace pronta a divampare e quando tutti noi saremo vento volto ad alimentarne le fiamme allora ci sarà la resa di conti.
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